Pagine

lunedì 27 febbraio 2017

tappi di vita 5° episodio

   Oggi non volevo giocare coi tappi, ho dato un giorno di libertà a tutti i tappi della cittadella. Avevo voglia di leggere il fumetto che mi sono scordato di prendere al piano di sotto, mancano poche pagine da leggere e stasera voglio proprio finirlo. Quando comincio una storia poi devo finirla, io non riesco mica come fanno certi a ritornarci su dopo mesi. Come sono fredde queste scale di marmo, chissà perché i miei si sono comprati questa casa mezza moderna e mezza antica. A pensarci bene hanno fatto sempre scelte strambe, che poi non erano mai scelte fatte fino in fondo da loro. Per esempio, a comprare questa casa li ha convinti una mia vecchia zia acida, mezza zitella, tutta bianca, che si mangiava le parole, e mi rincorreva per farmi le siringhe. Sì, mio padre, dopo aver faticato tantissimo da quando aveva otto anni, aveva proprio il desiderio di una casetta tutta per noi, ma di comprare proprio questa con le scale di marmo non l’ha deciso di certo lui. Dopo il periodo da cassaintegrato in fabbrica ha lavorato per tre: usciva di notte e rientrava di notte. Lo ammiravo. Qualche volta piangevo, quando non lo vedevo per l’intera giornata. Ma la domenica mattina era tutto mio, quando mi comprava dieci bustine di figurine all’edicola lungo il viale dei platani. Camminavo piccolo accanto a lui e ridevo con le gengive tutte di fuori, ché mi sentivo un re con quelle bustine ancora chiuse nella tasca del cappotto grigio. Camminavo e pregustavo quel profumo dolciastro di colla, continuando a sorridere, con lui accanto.
  Ora papà sta in pensione, anticipata, ma lavora ancora sodo. Mia madre gli vuole bene. Gli prepara da mangiare e gli lava tutti i panni da lavoro: metà sanno di mare e l’altra metà di terra. Ogni tanto litigano facendo scenate esagerate, quando succede, mi tappo le orecchie e fischietto canzoncine sceme sceme. Nel rimbombo mi pare di stare dentro ad una navicella diretta verso un’altra galassia.  Poi mi stappo le orecchie, ma succede a volte che non hanno ancora finito di litigare e quindi, com’è successo in quella domenica pomeriggio, mi tocca sentire il suono secco della forchetta che prende in pieno il vetro della finestra, dopo aver attraversato l’intera stanza come un missile. Il vetro comunque non si rompe mai. Certe volte sento porte sbattute in sequenza, camera bagno ingresso, con tutta la forza della fine del mondo. A quel punto mio padre esce e sparisce tra gli alberi in fondo alla pineta. Invece mia madre, stremata dallo scontro, si stende sul letto che pare una merla morta. Allora io passo silenzioso accanto alla stanza da letto e mi vado a mangiare i biscotti colussi in cucina. A  volte cominciano a litigare proprio mentre sto pensando a un’amichetta: la immagino già grande come mia madre, coi seni, le cosce e tutto quello che la trasforma in una femmina vera. Spesso succede proprio nel momento che sto con gli occhi chiusi e le gambe tese, che sento le prime urla, bestemmie o porte che sbattono. E così ricomincio a tapparmi le orecchie.

    Il fumetto l’ho scordato giù in cucina perché prima sono salito di corsa per fare l’ultima partitella a pallone della giornata, in cameretta con mio fratello. Siamo grandi e grossi, pensiamo alle nostre femmine nude, eppure quando scatta la voglia della partitella non resistiamo e ci scanniamo come nei peggiori derby. La palletta da gioco è grande quanto un uovo, ma i dribbling glieli faccio lo stesso alla Bruno Conti.

Sento i miei, sdraiati a pancia all’insù, che fanno il loro solito dolce resoconto della giornata, anche se a volte capita che parlino male di qualche parente, ma questo dipende dai loro umori amari che si mischiano; ora mi pare proprio di sentire sempre più chiaramente un discorso che mi riguarda…

“ …chissà se riuscirà a combinare qualcosa di buono nella vita”.
“ Speriamo che trov’ nu buon lavor’, ché quello non sa fa’ quasi niente”

Non faccio in tempo a tapparmi le orecchie. Vorrei partire con le canzoncine sceme, ma a questo punto farlo non servirebbe più: il peggio l’hanno già detto. Vorrei fare un salto fino a giù, ma mi sentirebbero e allora sarebbe anche peggio. Di farmi vedere ora sarebbe vergognoso quasi come se gli vedessi mentre fanno l’amore. Devo congelarmi. Magari mi tappo lo stesso le orecchie e mi sento ancora un po’ marziano, pensando cose assurde. No, sarebbe davvero troppo assurdo. Magari aspetto paziente qualche altra frase di spiegazione, un accenno di pentimento. Magari erano arrabbiati con me e allora hanno deciso di sostituirmi nei cattivi discorsi a qualche parente fetente? O forse sono solo stanchi? Non li sento più. Dormono. Fuori i gatti miagolano come donne innamorate. Stasera c’è un silenzio che non avevo mai sentito. Non mi muovo. Le mani sfiorano le orecchie. Gli occhi bloccati. La bocca neanche la sento. Davanti ai miei occhi c’è la cornice del cristo piena di schizzi di vernice bianca sul corpo martoriato – residui di pennellate mai ripulite da mio padre – e stasera sta ancora più in alto al centro della parete, con la lampadina sopra la fronte. Il silenzio aumenta. Mi paralizzo sul gradino di marmo, vedo nel buio le vene blu e non so se sono le mie o del marmo di Coreno. Sto a tre metri dai miei che sono stesi sul lettone, morti di sonno, appena svuotati di parole amare per me, e non riesco a svegliarli per farmi spiegare. Ho tredici anni, l’età giusta per farmi valere e dirgliene quattro. Non mi muovo. Spero, ancora una volta spero, oggi ancora di più, nella parola buona dell’ultimo secondo. Che sgonfi il dolore. Ma non c’è.  Sale invece una rabbia mai conosciuta: vorrei entrare e rovesciarli a terra. Poi urlargli tutte le parolacce che gli ho sentito dire in questi anni, e con gli occhi di fuori fargli capire quanto siano loro ad avermi deluso. Sono l’ultimo figlio, un ragazzo pieno di tic, di paure, eppure ancora con un filo di voglia di perdonare. Stasera, che silenzio. Allora mi sdraio lentamente e di colpo crollo nel sonno anch’io.

  Mi sveglio in piena notte, sdraiato e freddo e con tutta la bocca impastata come di birra, come quella che una volta abbiamo bevuto di nascosto un sabato sera con gli amici. Rumori di materasso mosso da corpi mi fanno tremare, facendomi capire dove sono, e così scappo come un fantasma pauroso nel mio letto. Il fumetto è sul comodino, non si è mai mosso da lì. Mi tappo le orecchie e aspetto.





lunedì 6 febbraio 2017

Tappi di vita (4° episodio)

    Poi all’improvviso, in un luminoso pomeriggio di giugno, mentre me ne stavo a testa in giù concentrato su dei tappi a un incrocio che soccorrevano altri tappi incidentati, mi sale una irrefrenabile non voglia di vomitare. Mi rialzo e comincio a camminare velocemente nella stanza, avanti e indietro. Poi esco sul balcone, rientro. Faccio finta che non stia accadendo a me: è un vuoto di cui non voglio avere nessuna memoria. Così ammacco altri tre o quattro tappi all’incrocio, e me li fisso ancora  più stupito di prima. I tappi delle peroni rendono di più: con la loro leggera puzza danno realismo all’accaduto. Rimango all'incrocio dell’incidente fino a sera. Poi ceno. Melanzane arrostite e bocconcini di bufala. Dopo cena vado a liberare la scena dell’incidente, facendo ritornare a casa i vari tappi coinvolti, tranne due che li trasferisco nel piccolo ospedale. La diagnosi del tappo medico è inequivocabile: tre giorni di degenza, minimo. Cerco di tranquillizzare i parenti tappi, e subito dopo do la buonanotte all’intera cittadella. Esausto, mi sdraio sul divano a guardare Portobello in tivù ma il pappagallo non parla nemmeno stasera, e si ripresenta quel fastidioso senso di nausea che sfonda ogni distrazione che stavo per architettare nella mia mente, costringendomi a rialzarmi di scatto. Mio padre mi guarda di sguincio, mezzo addormentato non si preoccupa più di tanto dei miei movimenti. Mia madre già dorme. Raggiungo mia sorella su e le dico, ma senza parlare e facendo smorfie strane con la bocca contorta: aiutami! Lei ride, convinta di una mia ennesima imitazione. E smettila, scemetto, mi fa. Io allora comincio a togliermi i vestiti e ad ansimare. A questo punto lei mi viene incontro con gli occhi all’ingiù. Passiamo un’oretta sdraiati l’uno accanto all’altra, come in ospedale: mi aiuta a respirare accarezzandomi e raccontandomi fatti buffi vissuti con le sue amiche, anche se riesce a fatica a stare calma pure lei. Quando vede che la mia agitazione aumenta si alza e mi fa: andiamo da zia! I miei dormivano, e mia zia stava a cento metri da casa nostra e senz’altro era ancora sveglia a chiacchierare con le figlie. Le raggiungiamo in condizioni pietose, comiche: attraverso il vicolo con addosso solo gli slip bianchi, stringendo le mani sudate di mia sorella. Intorno a questi due mingherlini c’è solo buio di vicoli e neanche un’anima in giro. Entriamo con tutta l’emergenza del caso: non so cosa c'ha, respira male e trema, fa mia sorella tutta imbarazzata per quell’incursione serale. Mia zia coglie come sempre il nostro disagio e lo trasforma in un pronto aiuto: sedetevi ragazzi, vi preparo una bella camomilla. E si mette a raccontare di come anche la figlia più piccola ogni tanto aveva queste crisi durante l’inverno romano. Le sue figlie annuivano accennando sorrisi discreti su quei volti sereni. Già prima di bere la camomilla calda e dolce ricomincio a parlare, lentamente, tirando fuori parole farfugliate e annuendo contento a ogni sua carezza di parola.
   Al rientro stringo ancora la mano a mia sorella lungo quel vicolo che mi appariva meno scuro, più largo, e non sudavo più ma sentivo l’eco di quelle parole tenere e incoraggianti che ci riaccompagnavano piano a piano a casa.

In psicologia questo episodio può essere ascritto all’emetefobia.