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giovedì 30 novembre 2017

Dopamina, portami via.

Ai concerti dei Diaframma ad un certo punto, quando suonano Gennaio, succede sempre una cosa strana. Ci si mette a ballare, pogare o saltare e, quando si blocca il ritmo incessante nella canzone per fare spazio all’inserto melodico, allora restiamo tutti un po’ spaesati e ci guardiamo uno con l’altro e facciamo smorfie che vanno dal divertito e l'imbarazzato, roteando lo sguardo nella sala semibuia. Ma questo conta poco, in realtà quello che provo io è un senso di appartenenza a un epoca e al sentimento elettrico che sprigiona ancora: precipito coi pensieri dentro ai  miei intensi anni ‘90. Insomma, in quelle pause penso soprattutto a come ci sono arrivato a ballare ancora una volta Gennaio, a quarantasette anni suonati. E mi piace che io sia sopravvissuto bene dopo le tempeste di guai, agli accidenti inevitabili, e di quanto inaspettatamente sia contento di vedere quelli che intorno a me ai concerti hanno quasi tutti facce interessanti, uniche, scavate bene dalle esperienze - a parte quei due capelloni ubriachi e ricci che mi hanno procurato pure una caduta ridicola - e queste sensazioni mi facciano stare bene, almeno per qualche giorno. Il fatto che in tutta questa gioia improvvisa che esibisco in mezzo a sconosciuti, con cui condivido l’ascolto di canzoni mi imbarazzi sempre meno, mi rende forte, come uno scampato a un incendio notturno in un bosco di conifere. Anni fa andavo spesso da solo ai concerti e la timidezza che mi trascinavo dietro mi paralizzava, nonostante conoscessi quasi tutti quelli della mailing-list, parlottavo a malapena solo con tre di loro. Ricordo quando nacque il mio primo figlio, tra i tanti, mi fece gli auguri Max Collini. Oggi sono più saldo ai miei pensieri, alla mia casa, ai miei figli, ai miei silenzi, alle mie paure, alle mie speranze.


Insomma, io dentro a un concerto ci sto bene, e se poi ci sono gli amici, mia moglie, allora sto anche meglio e diventa un’immersione fantastica dove scruto tutte le mie ossessioni, le mie fragilità, le mie gigantesche capacità di amare gli altri anche con tutti i loro adorabili difetti. Ci vedo me che dal lunedì al venerdì lavoro coi bimbi di tre anni insieme a cui mi rotolo a terra per improvvisare animali o streghe. E vedo me che piango per mezz’ora di fila davanti al Trasimeno senza riuscire a confessare quello che mi faceva piangere. E mi vedo anche quando affronto a muso duro il figlio adolescente, per poi pentirmi come un vecchio adolescente: ma a dirla tutta io voglio regredire solo nell’infanzia! Mi vedo mentre guardo mia madre rimpicciolita come una bimba, indifferente al mio sguardo fugace. Mi vedo che faccio ridere a crepapelle amici, e i loro amici. Mi vedo che ascolto la musica mentre dalla finestra osservo il Melograno carico di frutti, e protetto dall’albero c’è l’adolescente (vero) di prima che sistema i suoi ciddì colorati appena masterizzati. Mi vedo mentre guardo Propaganda Live insieme al piccolo e ridiamo e commentiamo, mentre aspetto impaziente le sue domande curiose come carezze.
Si, sto esagerando con questa immersione, in effetti a un concerto faccio altro, lo ammetto. E se faccio digressioni-immersioni è perché provo un piacere strano nello scrivere cosette mie condite di realtà, di sogni, di dolori e di certe cose che vedo ogni giorno e non riesco a trattenere per me. L’altra sera all’uscita dal concerto mi metto a raccontare a un’amica, improvvisa fan, di come Fiumani mi abbia fatto conoscere i libri della Parrella, e di come nel suo libro appena ristampato, Brindando coi demoni, ci siano racconti di una epopea esistenziale che forse nessun altro avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare così: una normalità che trasuda di arte e di vita disastrata, di sesso sofferto, di un’anima sensibile, fragilissima, ma mai davvero disperata. Un po’ come la mia storia, ma con meno arte e più figli, e con tanti lavori da cui scappare.
All’uscita dal concerto ho chiacchierato molto, ero esaltato dalla bella serata, e una volta sul vialetto di casa mia moglie mi fa: ma come fai a parlare così tanto? E io gli sorrido e le dico che non camperò mica mille anni, ma appena vedo come si sta corrucciando il suo bel volto, ridendo ancora di più le dico che a me piace raccontare quasi quanto vivere. E ci baciamo, e poi avviamo verso il cancelletto di casa. “Via i cancelli per favore, che non mi servon più”.



P.s.

Ieri col piccolo ci siamo goduti lo spettacolare concerto di Caparezza. Invitatemi ai concerti, non ai pranzi di Natale.