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domenica 15 ottobre 2017

cosa mi fa stare bene?

Si doveva andare all’Orto botanico, o al mare, e magari passare anche dalla mostra su Anna Magnani. Poi andare a trovare Marco in clinica. Si doveva assaggiare una tregua, col tempo mite intorno. Negli ultimi vent'anni ho fatto molte cose per dovere, ma in verità alcune anche per piacere tutto mio. Poche, se tiro le somme alle soglie dei quarantotto autunni. Quanto camperò ancora? No, non sto esorcizzando nulla, ché mentre lo scrivo già una ruga si ritrae spaventata. Giunto a questo punto, in questa domenica estiva d’ottobre, seduto sotto al Melograno mi concedo il lusso della sincerità appiccicaticcia. Quella senza  fondamenta, senza controprova: come l’arrogante sensazione di sentirsi migliori al cospetto dell’intero mondo tondo.
Ma tu mi vedi? Ecco, se riesci ad immaginarmi seduto là con l'occhio a palla per lo sforzo, e senti pure la voce di mio figlio che ripete Storia alla madre, e il cagnetto dei vicini che abbaia dietro i vetri e il gatto che ronfa beato in poltrona, ecco, allora sono riuscito a tirarti dentro la mia storia, per cinque minuti.  Almeno quella che sfiora questo monitor. E già così staremmo a metà del dibattito sulla questione giornaliera: come raccontarsi, se proprio ce l’abbia indicato un dottore di farlo, eh. Ma ti va davvero di starmi a leggere? A me di farmi leggere, lo ammetto, mi va almeno quanto di passare un weekend a Parigi a dicembre.
Sono stato una settimana senza frequentare i social, poiché nel frattempo avevo da fare molto coi pensieri che erano andati in subbuglio, e col costato indolenzito e molte altre faccende che non credo opportuno dichiarare qui troppo sinceramente. Esiste l’arte dello sparigliare, esiste un limite dove provare a inventare veramente. Esistiamo io e te, ma niente che possa rappresentarci senza cicatrici vere medicate con garze finte: esaltare il senso, e non il consenso di un momento.

In questi giorni non voglio maledire nessuno né voglio arrabbiarmi col tempo, e nemmeno coi cinquestelle: vorrei soltanto riuscire a tradurre a parole quell’incertezza mal trattenuta da quel sedicenne ieri, poco prima che scrivesse tre righe di sé durante il laboratorio. Appariva tutto rosso, tutto bloccato, tutto come uno stare a sentire i rimbombi dei pensieri e delle voci di parenti e degli amici: un coro di persone disastrate che in un attimo magico magari si mettono a cantare il suo pezzo rap preferito, e lui che con la sua felpa comincia a svolazzare con gli occhi umidi, facendo scendere a coriandoli le cose orrende ricevute nel tempo, e scriverne tutto eccitato. Santo cielo, fa che quelle tre righe diventino l’incipit più azzeccato del suo tempo.


2 commenti:

Sara ha detto...

Scrivi bene, non so se hai un interlocutore ideale.
Io passavo di qua, alla vigilia del mio 47ettesimo autunno.Però dato che ho già piantato i bulbi che fioriranno ad aprile, posso dire di essere alla 47ettesima primavera.

peppe stamegna ha detto...

Ciao Sara, e grazie davvero. No, non ho più interlocutori qui, anzi, pensavo di parlare da solo!
Aspetto i tulipani.