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giovedì 10 agosto 2017

stazioni di fuga

  
  Il treno sta partendo e come sempre mi sale quell’ansia che sa d’addio e di: aspettatemi che torno, eh. Devo ritornare a Roma, dopo aver passato alcuni giorni a casa da mia madre. Sono giorni che non si alza dal letto, capita che lo faccia almeno due o tre volte l’anno, poi passa. Non sono più preoccupato come un tempo, quando su questi treni regionali pregavo che cambiasse tutto, all’improvviso, a casa mia e nella mia testa. Oggi riparto col sollievo di rivedere dopo pochi ma lunghi giorni i miei figli, mia moglie, la mia casa, il mio glicine. Oggi i treni sembrano più veloci, hanno l’aria condizionata e non ci si può fumare più. Devo chiudere gli occhi prima che si apra come un sipario il golfo più malinconico della terra, con quelle sue colline minuscole che da piccolo facevo percorrere da biglie rosse immaginarie: le seguivo fino al loro tuffo in mare oltre la Punta stendardo. Chiudo gli occhi e divento me a quindici anni, seduto a gambe strette sul treno che sta partendo, con la faccia affamata di cose nuove sto voltando le spalle al golfo. Durante questo viaggio di ritorno, per un’ora almeno, sarò quel ragazzo: poi lo abbraccerò, poco prima di dargli una leggera spinta, travestita d'abbraccio per farlo precipitare in mezzo alla gramigna fuori dalla stazione di Campoleone. Ora ti saluto, cara B., ché devo sognare da solo.


Stazione Formia-Gaeta.

    Questo treno puzza come sempre, le tende svolazzano fuori e come al solito la mattina ci sono quei maleducati che dormono con i piedi sul sedile di fronte. Quella volta che Ambrogio Sparagna li fece alzare, con determinazione e senza paura, con quel gesto brusco quando aprì la tendina dello scompartimento, mi fece paura ma pure capire mille cose. Ma io ora sto scappando, e Sparagna invece col suo oscillarci dentro a quella tratta, riuscì a crearci una fortuna, e la sua arte. Io scappo e basta. Un giorno scatterò le foto più belle, conoscerò le persone più belle, amerò le donne più belle: ora scappo e basta. Quella volta che E. venne a salutarmi col motorino più vecchio della terra: stavo per partire e mi diede un bacio al volo, da quel giorno i baci devono confrontarsi con quel suo bacio tenero e profondo, dato sul binario tre alle nove di una mattina fresca. Sto scappando, e non è la prima volta. Un pomeriggio d’inverno andai a Latina. Scesi alla stazione e, pensando che la città fosse lì fuori, m’incamminai: mi ritrovai subito in mezzo alla pianura Pontina, quella studiata a scuola. Mi arresi e presi un autobus. Arrivai in piazza San Marco e vidi alcune bancarelle di libri. Una aveva sul banco solo monografie di fotografi, tutte nere, Fabbri Editore. Ne comprai una decina, poi ci ritornai dopo una settimana, per comprarmi tutte le altre. In quelle monografie di Jodice, D’Alessandro, Giacomelli, Koudelka e tanti altri futuri amatissimi fotografi, ci stava incredibilmente tutta la mia storia, e quella della mia famiglia, e del mio paese, e pure le mie ossessioni. Per anni pensai che la mela su un tavolo con accanto ad un uomo, in una foto di D’Alessandro, fosse una scena vissuta nella sala bar della clinica dove  ricoverarono mia madre. Scappai per non ripensare a quella clinica, o almeno per scacciare quella mela bacata in quel salone dove vidi ballare una mazurca una coppia di svitati adorabili. Scappavo, in verità, anche per un desiderio egoistico di annusare aria contaminata di città. Certo, Latina non era proprio una città, ma pure a Roma andavo spesso: scendevo a Termini e percorrevo via Nazionale con l’incubo che mi riconoscesse qualcuno. Una volta a Largo Argentina all’improvviso mi misi a correre perché sentivo dietro di me una voce simile a quella di mio zio. Appena a Termini sentivo subito quella puzza di ruggine, e me la portavo a spasso tra vetrine e piazze che mi facevano smorfiare brevi sorrisi: cammino da solo per le strade di Roma, ehi sei proprio tu, tocca il marmo, sfiora lo zampillo e ridi senza vergogna. Vivevo il contrasto tra paura e coraggio, era una turbina che avevo sotto al culo e mi faceva avere una faccia mai espressa prima. Mi fissai che dovevo osservare tutto quello che accadeva in città per poterci scrivere appena possibile un libro: I contrasti nell’era della pop art, fu il titolo che scelsi. Avevo raccolto informazioni con gli occhi, ma qualche volta scattavo foto, anche se, quando le scattavo, mi pareva di essere un cecchino, tanto era la paura di scocciare le persone. Coi barboni andavo di lusso, quelli neanche mi vedevano. Scappavo, ma in realtà prendevo aria a circa due ore da casa mia. Certe volte compravo riviste tipo Oggi, e me le leggevo al ritorno, per rilassarmi come certe vecchie che desideravo avere come nonne: le mie adorabili nonne mancate. Ricordo che spesso c’era Maria Giovanna Olmi in copertina su Oggi, in bikini. All’andata leggevo Repubblica, oppure Epoca, ve lo ricordate il settimanale Epoca? Scappavo, ma volevo essere sempre presente, le droghe o l’alcol non mi attraevano. Il sesso sì, ma cosa c’entra però il sesso con i vizi me lo deve ancora spiegare Don Gennaro. Una volta mi prese da parte al parco, e mi sussurrò di fare attenzione a frequentare quella... o di uscire con quegli altri… di non fare quelle cose… Io non capii, poiché in realtà mi tagliai semplicemente i capelli, rasandomeli dai lati. Non risposi nulla, ma da quel giorno non diedi più peso alla sua tonaca: diventò suggestiva come lo scialle della cartomante che d’estate sul viale dei platani, a lume di candela, attirava a sé i vacanzieri coi suoi superpoteri. Una volta scappai più delle altre volte. Rientrai verso le 22, d’inverno e il mare era mosso anche a quell’ora. Alla fermata c’erano mia madre, mia cugina grande e il marito. Vedendoli dall’autobus, appena misi piede a terra corsi come Mennea verso il lungomare. Queste urlavano come ossesse ma mica mi acchiappavano, e in più si prendevano gli schizzi d’acqua salata in faccia. Arrivai col fiatone fino alla mia cameretta, chiusi a chiave e mi tappai le orecchie.

Stazione Fondi-Sperlonga.

   Oggi sto scappando con stile, me ne vado a Bologna. Voglio vedere se è vero quello che canta Lucio Dalla. Voglio imparare a scappare meglio, mi sono stufato di essere rincorso. Devono capire che oramai faccio quello che mi pare. Mica faccio male a nessuno. Sono convinto che niente di brutto potrà mai accadermi, questa cosa la so da sempre, così vado e vengo, e parlo con tutti, e mi aspetto sempre qualcosa da ogni incontro: come quel giorno che mi ospitò una coppietta gentilissima a casa loro, vicino Firenze. Questi due erano iscritti alla scuola di fotografia di Luciano Ricci e, sentendomi dire che sarei ritornato giù in treno la sera stessa, erano già le 18, mi convinsero a stare da loro almeno per la notte, a Figline Valdarno. Mi sfamarono, mi chiesero mille cose, e mi misero al letto in una stanzetta che forse sarebbe diventata quella dei loro figli: nella notte fecero l’amore in maniera esagerata. Mi tappai le orecchie pure lì. L’indomani lei girava per casa in vestaglia trasparente e lui con la divisa da meccanico fece colazione velocemente. Ci salutammo sotto una pensilina bianca alla stazione, e per me fu la prima pura gioia sociale, tutta mia.


 Stazione Priverno-Fossanova

  In una mattina fredda di gennaio, alle sei, alla fermata dell’autobus col mare alle spalle, conobbi M. Portava un basco un po’ troppo alla parigina. Cominciò a parlarmi alle sei e smise alle undici, quando arrivammo a Firenze Campo di Marte.
“Io non pago il biglietto del treno e degli autobus da otto anni. Disobbedisco. Ma tu nella vita, dipingi?” Così esordì vedendomi con una cartellina, che in realtà conteneva le foto che realizzai come “compito a casa” per la scuola di fotografia, dopo un mese che restai tappato in casa, quando feci una fuga all’incontrario verso casa mia. Il mare placido e nero restò fermo, mentre noi partimmo con l’autobus. Gli chiesi con un filo di voce se aveva un biglietto in più, e la sua risposta fu un trattato politico sulla necessità di ottenere tutto gratis, e sulla conseguente determinazione a non lavorare mai per nessuno: dobbiamo picchiettare come uccellini alle finestre marce del capitalismo. Così mi conquistò, all’altezza della stazione di Priverno, oramai sul treno, mentre albeggiava su di noi: annuendo per cinque ore di fila, aderì al suo movimento fancazzista.
Cominciai ad applicare il suo credo già dalla settimana successiva al suo proclama. Coinvolsi E. e E. quando ripartimmo alla volta di Firenze. Fu un correre impauriti e divertiti in quel corridoio strettissimo dell’Espresso notte. Il controllore, enorme e baffone, insospettitosi dai nostri sali e scendi a ogni fermata, decise di braccarci. Lo vedemmo in fondo, tutto scombinato, come un orso disperato, che puntava verso la nostra direzione. Mettemmo la retromarcia e ci infilammo dentro al primo bagno libero. Lasciammo la porta chiusa ma senza girare la leva. Arrivò trafelato, con la fronte sudata, e sbatté la porta contro i nostri corpi sovrapposti: ridemmo come scemi durante il tempo immobile dell’emissione del verbale. L’amico E. però rideva nervosamente, considerata la sua precisione, il suo essere un ragazzo tranquillo, credo che fu per lui una mazzata tremenda quell’esperienza: la vergogna gli fece perdere un paio di chili, ma, come sempre, me lo fece capire dagli occhi e non con le parole. Invece E., il mio amore, fu felicissima dell’accaduto, e quella notte me lo sussurrò all’orecchio sinistro dopo i mille baci dati.
M. lo incontrai altre volte, in quegli anni. L’ultima volta che lo vidi era sconvolto, non più prolisso, e mi raccontò soltanto che cominciò a raccogliere i pomodori in campagna dallo zio; sfidava il capitale lavorando con gli umili, così mi disse mentre s’incamminò un po’ curvo lungo via Indipendenza. Lo seguii con gli occhi fino a quando imboccò vicolo La scurda, e in quegli interminabili secondi mi salì un pensiero lancinante, cattivo, comico e liberatorio: ma che cazzo mi racconti? Tu che non hai il coraggio nemmeno di ricevere l’amore di A.? Ripensai a lui qualche mese dopo, durante l’ultimo verbale subito. Il controllore con l’espressione da padre tentò di farmi ragionare sulla cazzata di non pagare il biglietto: tanto prima o poi o tu, o chi per te, lo pagherà con la mora. E sarà contento solo l’erario, allora. Parlò con tono incerto, fissandomi, anche se con gli occhi sembrava che fiutasse soprattutto quel mio disastrato presente. Io rimasi con la carta d’identità tra le dita e lo sguardo che rimbalzava fiero e ridicolo nello scompartimento zeppo di studenti pendolari e pendolari statali. Fu l’ultimo verbale e fu la prima fuga verso un senso, tutto mio, tutto in salita verso mille scorciatoie impazzite di desideri.

Se ti va arrivo a Roma, fuga dopo fuga.


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