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lunedì 6 febbraio 2017

Tappi di vita (4° episodio)

    Poi all’improvviso, in un luminoso pomeriggio di giugno, mentre me ne stavo a testa in giù concentrato su dei tappi a un incrocio che soccorrevano altri tappi incidentati, mi sale una irrefrenabile non voglia di vomitare. Mi rialzo e comincio a camminare velocemente nella stanza, avanti e indietro. Poi esco sul balcone, rientro. Faccio finta che non stia accadendo a me: è un vuoto di cui non voglio avere nessuna memoria. Così ammacco altri tre o quattro tappi all’incrocio, e me li fisso ancora  più stupito di prima. I tappi delle peroni rendono di più: con la loro leggera puzza danno realismo all’accaduto. Rimango all'incrocio dell’incidente fino a sera. Poi ceno. Melanzane arrostite e bocconcini di bufala. Dopo cena vado a liberare la scena dell’incidente, facendo ritornare a casa i vari tappi coinvolti, tranne due che li trasferisco nel piccolo ospedale. La diagnosi del tappo medico è inequivocabile: tre giorni di degenza, minimo. Cerco di tranquillizzare i parenti tappi, e subito dopo do la buonanotte all’intera cittadella. Esausto, mi sdraio sul divano a guardare Portobello in tivù ma il pappagallo non parla nemmeno stasera, e si ripresenta quel fastidioso senso di nausea che sfonda ogni distrazione che stavo per architettare nella mia mente, costringendomi a rialzarmi di scatto. Mio padre mi guarda di sguincio, mezzo addormentato non si preoccupa più di tanto dei miei movimenti. Mia madre già dorme. Raggiungo mia sorella su e le dico, ma senza parlare e facendo smorfie strane con la bocca contorta: aiutami! Lei ride, convinta di una mia ennesima imitazione. E smettila, scemetto, mi fa. Io allora comincio a togliermi i vestiti e ad ansimare. A questo punto lei mi viene incontro con gli occhi all’ingiù. Passiamo un’oretta sdraiati l’uno accanto all’altra, come in ospedale: mi aiuta a respirare accarezzandomi e raccontandomi fatti buffi vissuti con le sue amiche, anche se riesce a fatica a stare calma pure lei. Quando vede che la mia agitazione aumenta si alza e mi fa: andiamo da zia! I miei dormivano, e mia zia stava a cento metri da casa nostra e senz’altro era ancora sveglia a chiacchierare con le figlie. Le raggiungiamo in condizioni pietose, comiche: attraverso il vicolo con addosso solo gli slip bianchi, stringendo le mani sudate di mia sorella. Intorno a questi due mingherlini c’è solo buio di vicoli e neanche un’anima in giro. Entriamo con tutta l’emergenza del caso: non so cosa c'ha, respira male e trema, fa mia sorella tutta imbarazzata per quell’incursione serale. Mia zia coglie come sempre il nostro disagio e lo trasforma in un pronto aiuto: sedetevi ragazzi, vi preparo una bella camomilla. E si mette a raccontare di come anche la figlia più piccola ogni tanto aveva queste crisi durante l’inverno romano. Le sue figlie annuivano accennando sorrisi discreti su quei volti sereni. Già prima di bere la camomilla calda e dolce ricomincio a parlare, lentamente, tirando fuori parole farfugliate e annuendo contento a ogni sua carezza di parola.
   Al rientro stringo ancora la mano a mia sorella lungo quel vicolo che mi appariva meno scuro, più largo, e non sudavo più ma sentivo l’eco di quelle parole tenere e incoraggianti che ci riaccompagnavano piano a piano a casa.

In psicologia questo episodio può essere ascritto all’emetefobia.




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