Avevo convinto i miei compagnetti a giocare coi
tappi lungo il marciapiede dietro la curva di casa mia. Accanto
avevamo le auto parcheggiate di sbieco, in discesa, e noi stavamo sdraiati e
schiacciati in quel metro scarso a gareggiare ognuno col suo tappo più veloce. Mi
ero inventato questo gioco, reclutando amici con cui condividerlo: uno era
altissimo, un altro enorme e grasso, un altro ancora bassissimo e tutto peloso.
E c’era pure uno viziatissimo dai genitori, figlio unico, e antipaticissimo ma
con una casa piena piena di giocattoli. Avevo scelto un gruppo strampalato per
la mia vocazione alla santità, anche se, per onestà, ero soprattutto un bambino
curiosissimo e con la brama di avere più giocattoli a disposizione. In quegli
anni in famiglia ricordo un clima sereno seppur appeso a un filo malato: ero
incollato a loro eppure sempre in giro a esplorare il quartiere. Ma di
giocattoli ne avevo davvero pochi. Coi tappi inventavo un mondo tutto mio
insieme a compagni che gli altri gruppi respingevano, deridevano: a me invece
piacevano da matti. In ognuno cercavo la deformità che mi mancava ancora. In
psicologia pare si chiami empatia, per me in quegli anni era il meglio che
riuscivo ad avere, ad amare. Le gare coi tappi iniziavano dopo la tazza di latte
del risveglio e terminavano poco prima delle sarde arrostite del pranzo: dentro
questo segmento di tempo c’erano silenzi di “pestecchie” che fiondavano i tappi
in fondo al marciapiede di porfido. Quando cadevano dal marciapiede bisognava
ripartire dall’inizio: un gioco interminabile, che mi serviva a trattenere la
tensione di quell’amore. Sentivo quel tempo come il migliore a disposizione,
sentivo che mi era toccato di giocare coi tappi come se giocassi a vivere come
gli altri.
Me ne tornavo a casa con la scatola piena di
tappi con quel lontano profumo di birra e di uomini prepotenti che l’avevano
bevuta, gli stessi che molestavano le marines americane nei night club la
notte. Io all’epoca non lo sapevo, sentivo solo quella puzza di violenza e
d’orgoglio, e me ne scappavo di corsa a casa, dove mangiavo e ascoltavo, prima
di accovacciarmi sorridente nel letto fresco zeppo di sogni.
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