Ieri percorrevo a passo d’uomo la Tiburtina,
fino a Tivoli: sul sedile posteriore avevo i fratelli fallimenti di questi
anni. Case sgaruppate abitate per necessità. Posti di lavoro come manicomi, e uno
per davvero: e io dentro a fare il
basagliano con contratto a tempo indeterminato. Dopo i miei subconsci segnali
di disobbedienza, che si traducevano in ritardi e malattie, sono stato sbattuto
fuori proprio l’ultimo giorno di prova.
Stavo in macchina poco prima di Villa
Adriana e sentivo quel puzzo di fogna-travertino e vedevo quel sabbione sporco ai
bordi, e pensavo che questo scenario è stato permesso da ogni genere di giunta
comunale. Da lì ci passano tutti: magistrati, preti, cittadini attivi e
compagnia cantante, eppure, quella sabbia che si deposita ai lati delle cave fa
parte del paesaggio, come una brutta abitudine che col tempo sembra faccia meno
male. Come buttare le cicche per strada: si è sempre fatto, eh, direbbe il
fumatore e qualche mio amico fricchettone. Una manica di abitudinari
maschilisti ci governa i giorni, e quelli più velenosi non hanno ancora pieno
potere: cialtronano leccando il culo nei corridoi affollati.
Ma lasciali stare, direbbe la vocina
stronza. Ma come faccio?
Oggi mi godevo la mia mezz’ora di
pausa, al sole d’ottobre, dopo cinque ore di ventisette bimbi negli occhi e
nella testa, pianti compresi. Stavo nella piazzetta del quartiere veltroniano
dove lavoro: ci abito pure in un quartiere simile, e dio solo sa quante
illusioni si stanno sgretolando in quelle aiuole incolte, zeppe di cicche e
preservativi, che perimetrano come un’isola viziosa e vuota il quartiere dalla
città. Insomma, mi siedo a gambe accavallate sulla panchina di fronte al bar –
niente caffè, niente dolcino, 1100 euri sfumano subito – e osservo quelli che
prendono il caffè ai tavolini del bar. Focalizzo l’attenzione su due. Uno
grosso, sulla cinquantina, l’altro tozzo, sulla trentina. Lavorano alla sede
centrale di una grande banca italiana. Quello sulla cinquantina fa: oggi me so’
magnato una spigola e cento grammi de’ patate. E aggiunge, stavo dietetico
comunque. Ecco, in quel preciso istante, mentre usciva l’ultima sillaba
piaciona, in quel frammento di post-veltronismo, io e la mia coscienza ci siamo
osservati allo specchietto del Mercedes parcheggiato: io e lui abbiamo lo
stesso articolo 18, io e lui però siamo distanti come Domodossola e Canicattì.
Eppure, ci legano una piazza, un suolo, una lingua e uno Statuto dei
lavoratori. La spigola alla pausa pranzo no, e neppure la prospettiva: lui
guardava me e la mia maglietta unta di bimbi, io lui e la sua giacca immacolata
d’ordinanza, come fondale di un’intera diseguaglianza.
Non raccontateci imprenditori e
sindacalisti, politici e giornalisti, di unità, di stesso comune destino, di
alleanza strategica, del stiamo tutti
sulla stessa barca. Perché no, caro mio panzone con la spigola in corpo già
il mercoledì in pausa pranzo: ché su quella barca fino a qualche tempo fa c’era mio padre, e,
magari, pescava le spigole per tuo padre: che poi portava, magari, come dono la
domenica mattina a qualche console democristiano ciociaro.
Io mi sento forte dentro a una storia
di sconfitte e rinascite, mica mi perdo davanti alle grossolane differenze che
persistono, nonostante la tecnologia e la letteratura, e che spaccano il
dibattito in due; no, io sto già a camminare lungo i bordi di memorie future.
Bye bye.
Non importa cari miei, davvero, ché
io da sempre preferisco le insuperabili alici fritte alle spigole cotte su
piastre bisunte.
P.S.A me che ci sia la ricchezza non disturba, che ognuno scelga come gli pare il proprio castigo; a me disturba, e tanto, che ci sia un eccesso di ipocrisia nel dibattito pubblico.
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