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mercoledì 8 ottobre 2014

la spigola e la pausa pranzo

Ieri percorrevo a passo d’uomo la Tiburtina, fino a Tivoli: sul sedile posteriore avevo i fratelli fallimenti di questi anni. Case sgaruppate abitate per necessità. Posti di lavoro come manicomi, e uno per davvero: e io dentro a fare il basagliano con contratto a tempo indeterminato. Dopo i miei subconsci segnali di disobbedienza, che si traducevano in ritardi e malattie, sono stato sbattuto fuori proprio l’ultimo giorno di prova.
Stavo in macchina poco prima di Villa Adriana e sentivo quel puzzo di fogna-travertino e vedevo quel sabbione sporco ai bordi, e pensavo che questo scenario è stato permesso da ogni genere di giunta comunale. Da lì ci passano tutti: magistrati, preti, cittadini attivi e compagnia cantante, eppure, quella sabbia che si deposita ai lati delle cave fa parte del paesaggio, come una brutta abitudine che col tempo sembra faccia meno male. Come buttare le cicche per strada: si è sempre fatto, eh, direbbe il fumatore e qualche mio amico fricchettone. Una manica di abitudinari maschilisti ci governa i giorni, e quelli più velenosi non hanno ancora pieno potere: cialtronano leccando il culo nei corridoi affollati.
Ma lasciali stare, direbbe la vocina stronza. Ma come faccio?
Oggi mi godevo la mia mezz’ora di pausa, al sole d’ottobre, dopo cinque ore di ventisette bimbi negli occhi e nella testa, pianti compresi. Stavo nella piazzetta del quartiere veltroniano dove lavoro: ci abito pure in un quartiere simile, e dio solo sa quante illusioni si stanno sgretolando in quelle aiuole incolte, zeppe di cicche e preservativi, che perimetrano come un’isola viziosa e vuota il quartiere dalla città. Insomma, mi siedo a gambe accavallate sulla panchina di fronte al bar – niente caffè, niente dolcino, 1100 euri sfumano subito – e osservo quelli che prendono il caffè ai tavolini del bar. Focalizzo l’attenzione su due. Uno grosso, sulla cinquantina, l’altro tozzo, sulla trentina. Lavorano alla sede centrale di una grande banca italiana. Quello sulla cinquantina fa: oggi me so’ magnato una spigola e cento grammi de’ patate. E aggiunge, stavo dietetico comunque. Ecco, in quel preciso istante, mentre usciva l’ultima sillaba piaciona, in quel frammento di post-veltronismo, io e la mia coscienza ci siamo osservati allo specchietto del Mercedes parcheggiato: io e lui abbiamo lo stesso articolo 18, io e lui però siamo distanti come Domodossola e Canicattì. Eppure, ci legano una piazza, un suolo, una lingua e uno Statuto dei lavoratori. La spigola alla pausa pranzo no, e neppure la prospettiva: lui guardava me e la mia maglietta unta di bimbi, io lui e la sua giacca immacolata d’ordinanza, come fondale di un’intera diseguaglianza.


Non raccontateci imprenditori e sindacalisti, politici e giornalisti, di unità, di stesso comune destino, di alleanza strategica, del stiamo tutti sulla stessa barca. Perché no, caro mio panzone con la spigola in corpo già il mercoledì in pausa pranzo: ché su quella barca fino a qualche tempo fa c’era mio padre, e, magari, pescava le spigole per tuo padre: che poi portava, magari, come dono la domenica mattina a qualche console democristiano ciociaro.
Io mi sento forte dentro a una storia di sconfitte e rinascite, mica mi perdo davanti alle grossolane differenze che persistono, nonostante la tecnologia e la letteratura, e che spaccano il dibattito in due; no, io sto già a camminare lungo i bordi di memorie future. Bye bye.
Non importa cari miei, davvero, ché io da sempre preferisco le insuperabili alici fritte alle spigole cotte su piastre bisunte.
P.S.
A me che ci sia la ricchezza non disturba, che ognuno scelga come gli pare il proprio castigo; a me disturba, e tanto, che ci sia un eccesso di ipocrisia nel dibattito pubblico.
  
lo spinario

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