Sono sempre stato un somaro a scuola.
Ho già scritto su questo blog che ho cambiato quattro prime superiori in
quattro anni. Un disastro. Al piacere di imparare preferivo quello della fuga.
Agli insegnanti - mai avuto di buoni, tranne la maestra Nardone - preferivo mio zio, o la terrazza assolata di panni stesi, senz’altro i cannoli alla crema, e
poi le riviste patinate. Le partite a pallone infinite. Non era un vanto il mio
non studiare, anzi, ne ho pianto e pure di brutto. Eppure.
Poi ieri ho letto d’un fiato La scuola non serve a niente, di Andrea Bajani. L’ho preso in biblioteca con
l’idea di capire meglio mio figlio scolaro. Durante la lettura si sono
disseppellite una serie d’immagini ingiallite, tristi, un po’ disperate che
riguardano i miei quindici anni,
insomma, di cose accadute malamente; mi viene da urlare che non sta scritto da
nessuna parte, con buona pace di Giovanni Lindo e tutti i tibetani lontani, che
ciò che deve accadere accade. Macché.
Bajani prova a entrare nelle scuole
dalla porta di servizio, quella lontana dai clamori delle annunciate riforme, o
quelle dipinte dai giornali durante le consuete occupazioni. Entra dalla
porticina e osserva. Ascolta. Immagina la vita di quei ragazzi, scruta i loro
pensieri fragili, spietati, e ne fa un racconto a tratti desolante, ma, per
nostra fortuna, anche illuminante, poiché riesce a captare da quegli incontri,
da quegli sguardi, cosa c’è da migliorare nella scuola italiana. Migliorare,
non abbattere. Ci suggerisce di fare pace con l’inutilità di alcune cose –
contrapposta all’utile riconosciuto socialmente, ahimè - ché poi, come speso
accade, queste risultano alla lunga le più utili: come amare l’insegnante e la
materia che insegna. Chiedetelo a Recalcati cosa comporta, alla lunga, dopo
decenni, quel tipo d’innamoramento.
Bajani ci dice come la lontananza
dei professori dagli alunni, descritta bene durante le gite scolastiche, crei
fallimenti e dolore. Ai professori nell’immediato, agli studenti magari nel
tempo. L’autore fa periodicamente degli incontri nelle scuole, dove, oltre a
leggere libri, si diverte con gli studenti a coniare neologismi: rinuncianesimo
ne è l’emblema sublime, preoccupante, di queste ricerche sul campo. Interessante
anche lo scritto di un ragazzo, che Bajani ha smarrito in un trasloco ma che ne
ricorda alcuni passi; è un racconto polemico, stimolante, dal titolo: scaldare
la sedia. Il libro pare che sussurri: lasciali parlare i ragazzi, che poi
qualcuno di loro resterà ad ascoltare, magari sarà un ascolto sospeso nel
tempo. Uno scambio post-datato. Un coltivare paziente tra zolle dure e altre
friabili di terra, comunque coltivabili, magari con un po’ più di fatica del
necessario. Ecco perché, forse, scappavo da mio zio contadino: all’epoca stavo già
a cavallo della metafora. Povero me, oggi, circondato da troppe metafore e
pochi maestri. O forse semplicemente avevo bisogno all’epoca (e oggi), come
tutti, d’imparare là dove c’è dell’amore contaminato di sapere nell’aria?
All’interno del libro ci sono capitoli interessanti, divertenti, dolenti di altri autori coi racconti
ambientati nelle loro scuole: quelli
di Silvia Dai Prà mi hanno coinvolto di più, con quei narrare dal dentro; non
soltanto delle aule, ma, soprattutto, dentro ai sentimenti di un insegnante
precario. In questi giorni si parla di loro, del loro possibile assorbimento
stabile nelle scuole: che sia intelligente e leggero il loro stare in quegli
edifici enormi da colmare d’amore e sapere.
Stamattina ho fatto pulizia in
cantina. Vecchi Manifesto, e tanti altri ritagli di giornali, e troppi diari. Ne
ho scritti quintali di diari, cosette sentimentali, zeppe di tenerezze,
rivendicazioni inutilizzabili; forse quelle cosette mi hanno preso troppo
tempo, impedendomi di impegnarmi a dovere nello studio? Chissà; ma di certo in
quell’idealismo di paese, io, somaro sensibile, trascuravo mio malgrado, le
cose belle da imparare e montavo, insieme al mio orgoglio, sul comodo
piedistallo della dittatura dell’incompetenza: fornito gratuitamente alla mia
generazione, da quella precedente. Mannaggia. Credo che sia proprio così,
ragazzo sensibile e devastato dalle assenze, ma tu crescevi lo stesso su quel
filo d’alta tensione della tua esistenza ballerina. Senza nessun professore con
cui chiacchierar.
Per fortuna poi arriva questo pezzo di Antonio Pascale...
Per fortuna poi arriva questo pezzo di Antonio Pascale...
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