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lunedì 8 settembre 2014

Non è mai (Mai!) troppo tardi

Sono sempre stato un somaro a scuola. Ho già scritto su questo blog che ho cambiato quattro prime superiori in quattro anni. Un disastro. Al piacere di imparare preferivo quello della fuga. Agli insegnanti - mai avuto di buoni, tranne la maestra Nardone - preferivo mio zio, o la terrazza assolata di panni stesi, senz’altro i cannoli alla crema, e poi le riviste patinate. Le partite a pallone infinite. Non era un vanto il mio non studiare, anzi, ne ho pianto e pure di brutto. Eppure.

 Poi ieri ho letto d’un fiato La scuola non serve a niente, di Andrea Bajani. L’ho preso in biblioteca con l’idea di capire meglio mio figlio scolaro. Durante la lettura si sono disseppellite una serie d’immagini ingiallite, tristi, un po’ disperate che riguardano i miei quindici anni, insomma, di cose accadute malamente; mi viene da urlare che non sta scritto da nessuna parte, con buona pace di Giovanni Lindo e tutti i tibetani lontani, che ciò che deve accadere accade. Macché.
Bajani prova a entrare nelle scuole dalla porta di servizio, quella lontana dai clamori delle annunciate riforme, o quelle dipinte dai giornali durante le consuete occupazioni. Entra dalla porticina e osserva. Ascolta. Immagina la vita di quei ragazzi, scruta i loro pensieri fragili, spietati, e ne fa un racconto a tratti desolante, ma, per nostra fortuna, anche illuminante, poiché riesce a captare da quegli incontri, da quegli sguardi, cosa c’è da migliorare nella scuola italiana. Migliorare, non abbattere. Ci suggerisce di fare pace con l’inutilità di alcune cose – contrapposta all’utile riconosciuto socialmente, ahimè - ché poi, come speso accade, queste risultano alla lunga le più utili: come amare l’insegnante e la materia che insegna. Chiedetelo a Recalcati cosa comporta, alla lunga, dopo decenni, quel tipo d’innamoramento.
Bajani ci dice come la lontananza dei professori dagli alunni, descritta bene durante le gite scolastiche, crei fallimenti e dolore. Ai professori nell’immediato, agli studenti magari nel tempo. L’autore fa periodicamente degli incontri nelle scuole, dove, oltre a leggere libri, si diverte con gli studenti a coniare neologismi: rinuncianesimo ne è l’emblema sublime, preoccupante, di queste ricerche sul campo. Interessante anche lo scritto di un ragazzo, che Bajani ha smarrito in un trasloco ma che ne ricorda alcuni passi; è un racconto polemico, stimolante, dal titolo: scaldare la sedia. Il libro pare che sussurri: lasciali parlare i ragazzi, che poi qualcuno di loro resterà ad ascoltare, magari sarà un ascolto sospeso nel tempo. Uno scambio post-datato. Un coltivare paziente tra zolle dure e altre friabili di terra, comunque coltivabili, magari con un po’ più di fatica del necessario. Ecco perché, forse, scappavo da mio zio contadino: all’epoca stavo già a cavallo della metafora. Povero me, oggi, circondato da troppe metafore e pochi maestri. O forse semplicemente avevo bisogno all’epoca (e oggi), come tutti, d’imparare là dove c’è dell’amore contaminato di sapere nell’aria?
All’interno del libro ci sono capitoli interessanti, divertenti, dolenti di altri autori coi racconti ambientati nelle loro scuole: quelli di Silvia Dai Prà mi hanno coinvolto di più, con quei narrare dal dentro; non soltanto delle aule, ma, soprattutto, dentro ai sentimenti di un insegnante precario. In questi giorni si parla di loro, del loro possibile assorbimento stabile nelle scuole: che sia intelligente e leggero il loro stare in quegli edifici enormi da colmare d’amore e sapere.


Stamattina ho fatto pulizia in cantina. Vecchi Manifesto, e tanti altri ritagli di giornali, e troppi diari. Ne ho scritti quintali di diari, cosette sentimentali, zeppe di tenerezze, rivendicazioni inutilizzabili; forse quelle cosette mi hanno preso troppo tempo, impedendomi di impegnarmi a dovere nello studio? Chissà; ma di certo in quell’idealismo di paese, io, somaro sensibile, trascuravo mio malgrado, le cose belle da imparare e montavo, insieme al mio orgoglio, sul comodo piedistallo della dittatura dell’incompetenza: fornito gratuitamente alla mia generazione, da quella precedente. Mannaggia. Credo che sia proprio così, ragazzo sensibile e devastato dalle assenze, ma tu crescevi lo stesso su quel filo d’alta tensione della tua esistenza ballerina. Senza nessun professore con cui chiacchierar. 
Per fortuna poi arriva questo pezzo di Antonio Pascale...

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