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sabato 5 aprile 2014

Quel silos con le finestre accese

Stasera per la prima volta ho dovuto contrastare un filo di qualunquismo in una frase di mio figlio. Si parlava di profughi, e d'immigrati, il discorso era condito di diavolerie di quartiere: paura per una struttura per profughi che stanno per aprire. Stava ripetendo una frase detta e ridetta in classe da altri compagni, si capiva che la ripeteva senza capirla fino in fondo. Adesione naturale, forse, quella verso la sua comunità. Ma io non ci sto e urlo che deve pensare con la propria testa e bla bla bla. Lui si ritira offeso. Riparto facendo un quadro dettagliato sulle differenze tra profugo e immigrato, delinquenza e bisogno di sicurezza. E la pace è tornata, accompagnata da una quiete indifferente.
Con mia moglie allora ci diciamo sottovoce: a volte quanto è faticoso non essere come tutti gli altri. Lo diciamo con parole diverse, ma l’inquietudine è la stessa. Facile parlare, facile sentirsi buoni tra buoni, poi, quando vivi in un quartiere che pare un’enclave di giovani coppie scappate da quartieri dormitorio malfamati, e convinti che qui, dove la metro dista otto km e nei silos dove una volta c’era il grano ora c’è Dimitri – che gironzola su una safari scassata ridendo di birra e di sole e che a me non fa paura – si starà per forza meglio da dove veniamo. Mentre a me invece deprime l’idea che mio figlio debba arrivare in una scuola superiore dopo un’ora e mezza di bus stracolmi di rabbia.
Siamo in gabbia, e ce la siamo costruita controvoglia. Quel silos lo guardo nelle serate estive e ci proietto contento le seguenti parole “sì lo so che quello che sono solo io lo so”, ma poi rientro in casa confuso e calpesto ogni ragionamento con un logoro ottimismo appiccicato sotto le ciabatte.


Sarà che mi dispiace tanto della morte di Enrico Fontanelli, musicista degli ODP, sarà che la stanchezza spezza ogni cosa, ma qui, ora, stasera ogni cosa è tremendamente al proprio posto.


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