Ci sono ancora
concerti in giro, nonostante siamo tornati tutti a lavoro, in città, lontano
dai pantaloncini corti e le colazioni alle undici di mattina. Siamo tornati a
combattere in città tra debiti e attese: aspetto con piacere l’uscita del nuovo libro di racconti di Antonio Pascale. Sperare di vedere qualche film passato a Venezia. Leggere ridendo le vignette di Makkox. E voglio incontrare
amici, con cui scambiare tempo, racconti e nevrosi. A
parte queste mie divagazioni, e altre cosucce che mi tengono in vita, bisogna
urlare: sono finite le vacanze! Azz! ma questi ancora che continuano a tentarci
coi concerti. Non vado a vedere la reunion (l’ennesima…) dei Csi. Basta, voglio
immergermi nella realtà, delle illusioni e degli svaghi non ne ho più bisogno.
Mi devo ancora riprendere dallo spaesamento di quando son tornato a Roma:
osservavo il salone di casa e desideravo una camera d’albergo confortevole che
mi accogliesse come una zia morbida; poi l’indomani mi sono sbloccato e stavo già
potando come un forsennato i rami serpenti del glicine ribelle e vigliacco: lo
adoro in primavera, per il resto dell’anno ci sfidiamo come cani e gatti. Anche
se poi, una volta rientrato nelle abitudini urbane, quello che hai fatto in un
mese intero si accorcia in un unico ricordo: il sentimento frizzante di non
gravitare intorno al lavoro, seppur con venature d’angoscia pomeridiana. Che
poi ho pure lavorato, sfidando gli ulivi e i gelsomini agguerriti da mesi e
mesi di solitudine verde.
Insomma l’estate
è finita, così come la giovinezza e, come direbbe Battiato: meno male che sia
finito quel periodo della vita gonfio e abbagliante e così inconcludente.
Come
l’estate, dove le nostre ferie da cittadini ci fanno compiere azioni che
altrove parrebbero da dementi: trascinarci in giro per paesi coi bermuda ancora
bagnati e chiedere alle vecchiette cose amene, con quel sorriso abbronzato che,
se te lo ritrovassi davanti in un giorno lavorativo, sai le madonne che gli
tireresti dietro? In vacanza no, non accade, e tutti galleggiano come bimbi con
la sola differenza di bevute fiume di birra: d’inverno ti farebbero pensare a
un principio di alcolismo, tutte quelle birre buttate giù all’aperto, con le
falene alle spalle che danzano davanti alla plafoniera. Eppure accade, e c’è
poco da fare: è un tempo dove timidamente ti sbuca il tuo doppio accanto.
Succede già dalla prima ora di ferie. A volte si defila, e ti ritrovi depresso
sotto un ombrellone comprato al discount che illude: pare che faccia ombra
invece aumenta silenziosamente i raggi UV, pur facendo ombra. Stavo morendo
d’insolazione e mentre chiedevo agli amici se avessero farmaci dietro, un’amica
mi offre fiori di bach. Educatamente mi sono messo a osservare la confezione,
temporeggiando – avevo paura che dalla discussione sull’inutilità dei prodotti omeopatici poi si arrivasse a Grillo,
con rischio di conseguente litigata, no, stavolta ho lasciato cadere le
provocazioni con filosofia, da spiaggia. Insomma, prima di ridargli i fiori di
bach, mi ero spostato di ombrellone e tutto era passato dalla mia testa.
Il mio doppio
vuole la pace, mangiare bene, scopare e bere tanta birra. Chissà se un giorno
la sua semplicità arriverà a contagiarmi fino a spingermi a creare una fusione,
da cui uscirà un mostro, certo, ma almeno non avrò più bisogno di stare in ferie per galleggiare sulla
terra, ché la pesantezza non la voglio più.
1 commento:
Come mi ha fatto piacere questo post, realistico e condivisibile. Girare in bermuda bagnate...scopare bere e mangiare. Stay free Mostro!!!
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