Cerco lavoro e
pure una ragione, per essere migliore, e per non pentirmi di nuovo. Per esistere,
e non tradire il patto che feci nel sottopasso della stazione di Bologna, era
il ’95, e il telefono era un pugnale contro di me, e le parole, con quel tono
animalesco spingevano verso l’unica via di fuga. Eri tu. Era Roma, era di
maggio. In fondo al tunnel c’era quel poster de “L’amore molesto” che mi
procurò una smorfia, e più avanti studenti post-scapigliati (erano arrivati post dalla
fine dell’ottocento) che non riuscivano proprio ad attrarmi nei loro gruppetti
fumosi. Quindi tirai dritto e guardai le mie scarpe che si muovevano leggere su
quell’asfalto comunista, che, senza più accoglienza né allegria, restava solo nero
e sporco. Ero paurosamente solo, al nord, con accanto solo l’epigono che ero
che mi perseguitava e che stavo per scaraventare contro una vetrina. Non lo
feci poiché, fiutando la fine, l’epigono si mise a seguire un ragazzetto di
Potenza appena sceso dal treno, con le sue luccicanti Converse che spingevano
una valigia piena di carne ancora congelata.
Cerco lavoro,
perché cercare è sinonimo di stile, e io cerco ancora, in questa serata di
rinunce e dolore; cerco anche quel ragazzo che dentro a un casolare pieno di
fricchettoni toscani, in assoluta minoranza, ma senza violenza, dichiarò di
apprezzare un noto sindacalista, e spiegandolo, e forse senza volerlo, fece una
sorprendente lezione di stile: applicato all’esistenza e su quello che sentiamo
davvero. Tra le più belle che abbia
sentito, davvero. Ti amo ragazzo. E non ero io.
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