Vocina stronza
vattene via, le tue prediche odiose non le sento più. Mi hai fatto cambiare
quattro scuole in quattro anni. Neanche quella ragazzina bionda del nord mi hai
fatto baciare in pace. Poi, tutta la noia che m’istigavi, che prendeva la forma
di quella stanzetta d’adolescenza buia e terribile, no, vocina stronza, ora non
ti ascolto più. Tutti i posti di lavoro che facevi diventare all’improvviso lager,
come temporali infiniti; o certe frasi che ricevevo che parevano uscissero
dalla bocca di un boia, ma solo per te.
Invece oggi dico che certe frasi mi andavano dette, non solo per subirle
ma per ascoltarle e digerirle anche lungo strade incerte. Mi hai fatto scappare
da Firenze e dal sogno, in quel pomeriggio di gennaio, quando tutto era ancora
da vivere e scrivere, sei arrivata tu in quello studio di posa e, inciampando apposta
sulla Nikon, hai creato subbuglio nella mia testa e terrore nelle caviglie.
Scappa e scappa, ma solo per tornare nel ventre melmoso del paese noioso. E
dai. Tanto lo sai che lontano da lì ho dato il meglio lasciandomi contaminare
dalla bellezza inaudita.
E la sera me ne
sto a strofinare i pensieri tra lo smog e il silenzio, per aspettare liberato un
solletico o un’intuizione, sul davanzale fiorito dei miei desideri. Questo oggi
sono io, un incrocio bastardo tra istinto e storia, un po’ mio nonno snello
evanescente e un po’ come la mia città aperta e immensa di vuoto.
Ho conosciuto
centinaia di persone in questi anni e pure, se mi fermassi un secondo a
riflettere, so che ne ho saputo trattenere poche nel mio salotto. Così mi
ritrovo a maledire quei giorni di pigrizia che mi procurava sembianze amiche in
pingue relazioni annoiate. Perché? C’entra la vocina, Lei c’entra sempre quando
sbaglio mosse o dispero senza ragione scappando dalle parole. Già la ragione,
quella che adesso è diventata la mia ossessione per difendermi da risacche
ideologiche, mai del tutto superate o cacciate per sempre fuori dalle mie
viscere nere. Vivo accanto alla ragione e perdo amicizie e ragioni, che avevo
da vendere fino all’altro ieri. Dicono gli altri, gli stessi che pugnalano di
primo mattino quel lembo di carne viva e dolorante che espongo al mondo dal mio
corpo: abnorme desiderio mai sepolto.
Verrai di sera
con il buio a prendermi, e le mie braccia agitate si fermeranno: nemmeno un
lamento per quel che sono stato e diventato, con te, con Lei e le infinite
favole del dormiveglia che da giovane ingoiavo con gli occhi e le orecchie.
Quel che resta,
dieci minuti o trent’anni conta poco, quel che rimane per te è un sapore di
ruggine sulla lingua. Montagne sognate e mari dimenticati, l’odore del mattino
di giugno senza scuola e quello della prima sega di sera, nascosto da alberi e
canneti. Un treno che sfreccia alle spalle e un ragazzetto piegato accanto al
nespolo rugoso, sentinella di sentimenti oscuri che intanto davano forma all’amorevole
cura di una piantina di pesco, da me seminata. La ricoprivo di nylon e canne, e
per la notte mettevo una candela per riscaldarla. Un incendio poteva
incenerirla, e, di fatto, anche intenerirla; in realtà né l’una e nell’altra
sciocchezza è avvenuta mai. Sono qui a testimoniare nefandezze di vocine pazze,
mica a cadere nel tranello mieloso della nostalgia che affligge metà della mia
generazione: vacante tra rabbie prese a prestito via guru e seghe in rete via
mail.
1 commento:
carissimo
questo pezzo lo dovevi scrivere da parecchio, "lo aspettavo..."
mi è piaciuto molto, probabilmente tornerai sull'argomento almeno me lo
auguro
perché questa vocina la conosco e certamente la conoscono gli altri che
seguono il tuo blog.
è necessario condividerne il vissuto, la fenomenologia subdola e vigliacca per
smascherarla definitivamente
magari con il linguaggio della poesia, un racconto, un assolo di jazz, una
foto .........
ciao a presto
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