A Roma le voglio
bene, non c’è che dire; e alla Tiburtina ancora di più, altrimenti, come avrei
fatto a sopportarla in questi anni con le sue buche e tutta quella monnezza ai lati delle strade?
In questi mesi
però la Tiburtina m’immalinconisce sempre di più, coi suoi scatoloni illuminati
a sala giochi che si alternano ad altri scatoloni pieni di macchine invendute.
Dal bus vedo quel disoccupato che conosco, legge avidamente Il Messaggero, nemmeno
fosse Madame Bovary, con gli occhi spaventati incollati all’attualità; a
quest’ora le prostitute ancora non ci sono in strada, stanno in casa a
preparare gli zaini dei loro figli biondi. Intanto, su infinite linee gialle di
lavoro in corso, vedo impiegati in bilico con l’auricolare collegato a you porn:
l’audio sesso per ora può bastargli dentro a quel nero impermeabile. Se sapesse
mio padre in che strada mi ha lasciato circolare. Be', non mi direbbe nulla. Il
suo silenzio mi ha concesso il mondo. A me bastavano una città, un lungomare,
un mestiere. Ma questo non gliel’ho mai detto. Né scritto.
Scrivevo queste
cose ieri poiché stavo a piene mani nella pozzanghera dell’impasse, quella
fangosa che ti paralizza i pensieri; e la faccia stava quasi a terra. Oggi,
invece, oggi è stata una giornata di sbalzi d’umore, a me tanto cari; so che senza
gli sbalzi vivrei a metà le mie esperienze. Eh, già, annuisce l’amico mio.
Sbalzi in ordine
cronologico: sofferenza sull’assenza su di un campo di basket, che poi è solo
un’attesa di forme migliori. Poi una piazza con il via vai di ragazzini coi
loro padri, madri e fratelli di ogni età, stavano appiccicati l’un l’altro a
scambiar figurine e desideri: di voler fermare quegli attimi tra la colla e la
pagina, che sembrano grumi di felicità che sta per sbocciare nei caldi esili muscoli.
E li vedevo e volevo stringerli tra le braccia per poi non scomparire mai più nell’ammuffita
caverna. Meno male che mi hanno aiutato le mille facce dei cingalesi, egiziani
e marocchini nella luce del mercato di piazza Vittorio. Il piccolo l’avevamo perso, tra i banchi del pesce e patate giganti,
due minuti e la famiglia si stava paralizzando davanti al nulla. All’improvviso
sbucano decine di occhi dai bulbi bianchissimi che capivano prima di ogni paura
quello che stava accadendo: una catena di sguardi, chiamate e rassicurazioni
hanno risolto il caso. Ecco il piccolo che tornava insieme a un ragazzo che in
altri contesti forse avremmo ridotto a clandestino
disperato, in cerca di speranze inutili. Ma chi siamo noi per decidere le
mosse di vita degli altri? Davvero riusciamo a entrare nelle loro teste piene
di ritmi a noi sconosciuti, e di comprendere i loro colori accesi, e apprezzare
le loro promesse di amori eterni in lingue sconosciute, e accogliere le tante
parole piene di carezze che abitano nei loro pensieri? davvero crediamo di
poterlo fare con uno sguardo stanco? niente, abbiamo acquisito l’arroganza di
conoscere gli altri dalle nostre frustrazioni. Dai nostri casini politici.
Dall’assenza d’amore. E pieni di quest’assenza ci vestiamo in maniera impiegatizia
e costruiamo idee di mostri grigi che tiriamo fuori nei momenti peggiori, per
divertire gli amici o il nostro capoclan di turno. Le fidanzate annoiate.
Da quando sto
dentro a tre bei progettoni, due di lavoro e uno di piacere, non riesco più a
muovermi disinvolto. O di scrivere sciolto. Incapace a costruire mi dileguo.
Poi ritorno appena posso e tiro fuori il meglio, che c’è, lo so, per questo mi
lascio commuovere beato dall’intero banco di frutta esotica che non sono
riuscito a comprare. Troppo lusso, e troppe storie da contenere. Oggi prendo solo
delle pere.
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