Flavio non ci vede quasi più, ma la sua barba
bianca è la stessa di un tempo. Era il ’92, e Roma sonnecchiava dopo
l’ubriacatura craxiana e stava in fremente attesa dei sindaci star. Nel
quartiere tanti eroinomani che vagavano persi tra furtarelli e studi medici. Flavio
cercava di accoglierli tutti per poi accompagnarli alcuni al centro diurno che presiedeva, al
tiburtino. Flavio e la moglie ci scelsero a me e a S., dopo un tirocinio esaltante,
come operatori factotum del centro diurno. A me Flavio faceva l’effetto di uno
che sta sempre lì davanti ad insegnarti le cose del mondo, della politica e
della cura delle persone. L’unico medico che insieme allo sciroppo ti consigliava
anche di leggere Dostoevskij.
Una volta organizzammo un evento: musica dal
sottosuolo. Una specie di reading di musicisti di strada, alla fine se ne
presentarono solo un paio, uno venne pure con moglie e figli, andarono via felici
dopo un revival rock&roll e mangiata di tramezzini, peperonata e pop corn a
volontà. Nei giorni precedenti all’evento, lungo le banchine della metro ne avvicinammo almeno
una decina di ‘sti musicisti, disponibili a partecipare alla cosa. Uno addirittura
mi cantò, dedicandomela, “amico fragile”, alla stazione di piazza di Spagna.
Ricordo che prima dell’evento Flavio si
adoperò per sistemare le sedie di plastica per il pubblico, nel salone del centro diurno. Lui ogni cosa
del genere la faceva assomigliare a una festa dell’Unità. Quel giorno declamò anche qualche poesia,
in coda ai musicisti.
Flavio è timido.
Eppure racconta molto di sé, del suo passato di ragazzo borghese che abita a Pietralata ma che frequenta il liceo dei
preti, con ottimi voti. Che bazzica Lotta continua e l’entourage colto di quella
Roma stracciona coi portafogli gonfi, ma che cura anche i borgatari come se fosse
il minimo che si possa fare, per riparare la contraddizione imbarazzante in
essere. Il suo correre dalla città universitaria al monte del pecoraro assume,
ai miei occhi di oggi, significato di un medicare
disperato una ferita che non riesce a rimarginarsi con la sola retorica politica
di quegli anni.
Nel suo studio
Trosky giganteggia sfidando un presente vendoliano, perché non c’è di meglio,
ammette dolente toccandosi la barba morbida. Ascolta Flavio, e lo sa fare
benissimo. Ragiona e ragiona per risolvere un postulato di Euclide, racconta e mi
dice che in passato, mentre stava a tavola con gli amici, a volte si distraeva
pensando alle poesie da scrivere, oggi, invece, pensa al postulato di Euclide.
Eppure ti ascolta: ti mischia con le poesie e i postulati, diventi un’opera
d’arte e nemmeno lo sai. Quando stai con Flavio.
Il tempo scopre
la verità, diceva Seneca, e dargli torto è difficile. Sto scoprendo le
occasioni perse, le titubanze inutili e dannose, e le fughe verso bucoliche
salvezze, di quelle che mi spingevano verso la Novità, be’, quelle a volte
erano soltanto vecchie carogne truccate. Bastava andare da Flavio, forse, e
ascoltarlo e farsi ascoltare, per proseguire magari lo stesso a zig e zag tra
pensieri e azioni, ma, almeno, non partecipare ostinatamente al solito gioco
dell’oca piagnone.
Flavio per me rappresenta
ancora il sogno romano: affermarsi dentro a un paesone immondo e accogliente,
che aspetta la tua performance e se le dai buca poi ti sputa in faccia il
fango, quello pasoliniano, e quello dei miseri miti che ancora si sforzano di
indicarci strade sbagliate, bagnate di sangue e sudore; per me l’autentico
assomiglia sempre di più alla faccia di Flavio e alla sua ferita nascosta dalla
bianca barba. Tuffarsi nel mondo e nuotare con le proprie esili braccia, questo
mi ripeto ogni mattina da quando ho abbattuto quasi tutti i miti morenti. Tranne
Flavio, che cammina accanto a me.
Nessun commento:
Posta un commento