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domenica 20 gennaio 2013

Flavio


 Flavio non ci vede quasi più, ma la sua barba bianca è la stessa di un tempo. Era il ’92, e Roma sonnecchiava dopo l’ubriacatura craxiana e stava in fremente attesa dei sindaci star. Nel quartiere tanti eroinomani che vagavano persi tra furtarelli e studi medici. Flavio cercava di accoglierli tutti per poi accompagnarli alcuni al centro diurno che presiedeva, al tiburtino. Flavio e la moglie ci scelsero a me e a S., dopo un tirocinio esaltante, come operatori factotum del centro diurno. A me Flavio faceva l’effetto di uno che sta sempre lì davanti ad insegnarti le cose del mondo, della politica e della cura delle persone. L’unico medico che insieme allo sciroppo ti consigliava anche di leggere Dostoevskij.

Una  volta organizzammo un evento: musica dal sottosuolo. Una specie di reading di musicisti di strada, alla fine se ne presentarono solo un paio, uno venne pure con moglie e figli, andarono via felici dopo un revival rock&roll e mangiata di tramezzini, peperonata e pop corn a volontà. Nei giorni precedenti all’evento, lungo le banchine della metro ne avvicinammo almeno una decina di ‘sti musicisti, disponibili a partecipare alla cosa. Uno addirittura mi cantò, dedicandomela, “amico fragile”, alla stazione di piazza di Spagna. Ricordo che prima  dell’evento Flavio si adoperò per sistemare le sedie di plastica per il pubblico, nel salone del centro diurno.  Lui ogni cosa del genere la faceva assomigliare a una festa dell’Unità. Quel giorno declamò anche qualche poesia, in coda ai musicisti.

 

Flavio è timido. Eppure racconta molto di sé, del suo passato di ragazzo borghese che abita a Pietralata ma che frequenta il liceo dei preti, con ottimi voti. Che bazzica  Lotta continua e l’entourage colto di quella Roma stracciona coi portafogli gonfi, ma che cura anche i borgatari come se fosse il minimo che si possa fare, per riparare la contraddizione imbarazzante in essere. Il suo correre dalla città universitaria al monte del pecoraro assume, ai miei occhi di oggi, significato di un medicare disperato una ferita che non riesce a rimarginarsi con la sola retorica politica di quegli anni.

Nel suo studio Trosky giganteggia sfidando un presente vendoliano, perché non c’è di meglio, ammette dolente toccandosi la barba morbida. Ascolta Flavio, e lo sa fare benissimo. Ragiona e ragiona per risolvere un postulato di Euclide, racconta e mi dice che in passato, mentre stava a tavola con gli amici, a volte si distraeva pensando alle poesie da scrivere, oggi, invece, pensa al postulato di Euclide. Eppure ti ascolta: ti mischia con le poesie e i postulati, diventi un’opera d’arte e nemmeno lo sai. Quando stai con Flavio.

Il tempo scopre la verità, diceva Seneca, e dargli torto è difficile. Sto scoprendo le occasioni perse, le titubanze inutili e dannose, e le fughe verso bucoliche salvezze, di quelle che mi spingevano verso la Novità, be’, quelle a volte erano soltanto vecchie carogne truccate. Bastava andare da Flavio, forse, e ascoltarlo e farsi ascoltare, per proseguire magari lo stesso a zig e zag tra pensieri e azioni, ma, almeno, non partecipare ostinatamente al solito gioco dell’oca piagnone.

 

Flavio per me rappresenta ancora il sogno romano: affermarsi dentro a un paesone immondo e accogliente, che aspetta la tua performance e se le dai buca poi ti sputa in faccia il fango, quello pasoliniano, e quello dei miseri miti che ancora si sforzano di indicarci strade sbagliate, bagnate di sangue e sudore; per me l’autentico assomiglia sempre di più alla faccia di Flavio e alla sua ferita nascosta dalla bianca barba. Tuffarsi nel mondo e nuotare con le proprie esili braccia, questo mi ripeto ogni mattina da quando ho abbattuto quasi tutti i miti morenti. Tranne Flavio, che cammina accanto a me.

 

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