Sbuffo il fumo della sigaretta che mi ha lasciato Tonino a fine turno.
Nel farlo, mentre osservo questi pini giganteschi davanti ai miei occhi, penso
al viale di platani che mi conduceva a scuola. Da piccolo. E quegli alberi
erano i miei baobab. Penso a mia madre che mi accompagnava con quell’aria
sognante. Assente, a volte. Io ero contento e mi divertivo a scivolare ai lati
dei gradini sul liscio marmo levigato da mille sederi come i miei, o a
scambiare le figurine con i compagni, poco prima che la campanella scolastica
anticipasse i rintocchi del campanile comunale. La sfida a questo punto era tra
il bidello e il messo comunale, quest’ultimo più statale dell’altro nell’esser
calmo di burocrazia.
Tonino quando
ha finito di sbrigare con le terapie e i vari giri nei reparti per verificare
se stiamo tutti tranquilli, poi gli rimane un po’ di libertà che spende ad
ascoltarmi. Siccome sono stato professore d’Italiano, e appassionato di Storia
contemporanea, lui vuole sapere da me quello che è successo davvero negli anni settanta, soprattutto in
Italia. Dice che in quegli anni lì, terribili e creativi, si è trasformato
tutto. Poi mi suggerisce che bisogna analizzare a fondo tutte le questioni che
sono state affrontate in quegli anni di fermenti e cambiamenti sociali epocali,
per capire meglio quello che siamo diventati. Un po’ credo che abbia ragione, e così ci mettiamo a
fare queste chiacchierate storiche con l’intento di capirci di più entrambi. A
me piace farlo, mi tiene vivo dentro questo pre-obitorio fatto di zombie coi
camici e sciroccati vestiti
malissimo. Anche se ci sono dentro anch’io in questa moltitudine umana
barcollante di anime che ancora cercano qualcosa, tra gli infiniti viali e i
bui corridoi, ma almeno io la mattina mi scelgo la camicia da mettere.
Tonino
mi chiama sempre professore, e questo mi lusinga un po’. L’ho fatto per dieci
anni in una scuola privata, e fu un’occasione d’oro dopo altri dieci di gavetta
tra i mille istituti della città, e doposcuola vari. Così un giorno a un convegno
sulla “Didattica come strumento di emancipazione”, conosco Piero, il direttore
della scuola privata “Montale”, e facciamo una bella chiacchierata, durata un
intero pomeriggio al tavolino del chioschetto di viale Ippocrate, sull’importanza
degli studi nel trasformare la propria vita in meglio. A settembre stavo già
nel suo istituto a insegnare Italiano e Storia a ragazzetti un po’ viziati e un
po’ ambiziosi. Anzi, a dire il vero, ambiziosi lo erano soprattutto i loro
genitori poiché credevano, iscrivendoli da noi, che poi avrebbero disegnato un
percorso scolastico su misura per i loro figli d’allevamento. Illusi anche
loro.
Tonino
non si stanca mai di ascoltarmi e a volte resta anche oltre il proprio turno di
lavoro, e questo accade quando c’è ancora da dire sull’argomento iniziato e che
non si può rimandare al suo prossimo turno di lavoro, poiché si spezzerebbe il
filo. L’incanto. Affrontiamo scientificamente ogni segmento di quegli anni,
perché vogliamo costruire un atlante per le nuove generazioni. Questo lo dice
Tonino che pensa di ricavarne qualcosa da queste discussioni, lezioni direbbe
lui, poiché crede sia importante approfondire la conoscenza dei fatti per
riuscire ad orientare meglio nel mondo le nuove generazioni. Lui ci crede. Io
invece, quando parlo con lui, passo il tempo nei migliori dei modi possibili
qui dentro, e con una limonata fresca davanti in estate, o un orzo bollente
d’inverno, è il massimo di quello che posso aspettarmi da questo posto. Allo
spaccio-bar gestito dai pazienti le opzioni d’acquisto sono poche. Io mi
arrangio anche lì, tanto resistere per me significa soprattutto poter mettere
tutti i giorni un vestito diverso, elegante, così da conservare almeno lo stile
nel tempo che mi rimane. A me è sempre piaciuto lo stile, pur dentro il peggio
delle umane possibilità che mi sono capitate.
Esco
poco dalla clinica. Anche se non ho limiti alle uscite, preferisco stare
dentro. Ogni mattina esco soltanto per comprare le sigarette, poi mangio una
ciambella e bevo un caffè, e mi leggo tutti i quotidiani del bar, e basta. Un
tempo uscivo più spesso e anche per l’intera giornata, lo facevo anche per
smaltire tutta l’inquietudine che producevano i miei tanti pensieri inquieti.
Mi capitava di uscire in compagnia di Rosetta, un’assistente sociale che avevo
conosciuto durante l’anno che aveva lavorato da noi. Con lei passavo giornate
in giro con la sua auto a parlare e ridere di quello che abbiamo combinato nei
nostri passati remoti. Si andava anche nei mercatini o nelle librerie. Qualche
volta pure al cinema. Poi, scansato il pudore delle differenze di status, ci
rotolavamo sul suo letto a due piazze. Lei viveva da sola e quel letto
accoglieva pure qualche altro ragazzo occasionalmente. Così mi diceva. Non vedo
più Rosetta dal giorno che mi ha raccontato cose troppo tristi sulla sua
famiglia: non ce la facevo più, visto che con lei uscivo per cercare un’oasi
femminile dopo le giornate vuote e maschili della clinica. Qualche anno fa mi
ha scritto una bella e articolata lettera. Spiegava con delicatezza che forse è
stato meglio così per noi due, cioè, dichiarava pure che con me è stata una
cosa speciale, ma, a pensarci bene, chiosava che sarebbe stato difficile
proseguire. Si era fidanzata. Bastavano queste parole ed io avrei capito lo
stesso, invece, col gusto delle complicazioni, mi aveva fatto una disanima un
po’ professionale e un po’ da ex fidanzata sulla nostra stramba relazione. Che
poi non era così stabile, infatti nessuno di noi due pensava di essere
fidanzato con l’altro. Dopo di lei ho smesso di uscire in quel modo. Solo
piccoli gesti quotidiani che mi aiutano a non smettere di conservare dignitose
abitudini, soprattutto la mattina, prima che arrivi l’assistente con i suoi
modi brutali a servirci la colazione e a ribadirci rozzamente la nostra misera
condizione. Io prendo solo i biscotti e m’incammino verso il bar.
Ho
avuto anche una moglie, certo. E pure due figli. Sono stato un discreto padre
di famiglia, e un decente marito. Ma che fatica. Amavo mia moglie, e i suoi
modi dolci e accoglienti. E le sue intuizioni fulminanti. Un po’ meno amavo le sue pretese
di vedermi normale. Ogni volta che avevo una crisi, e ne avevo una ogni due o
tre anni, mi diceva che la dovevo smettere di fare il ragazzino. Come se
dipendesse da me, le suggerivo col quel tono di voce flebile e senza
convinzione che mi usciva in quei momenti di crisi. Aveva ragione, ora lo so.
All’epoca ero avvolto in una nebbia sentimentale che mi faceva sentire bene sempre
nel torto, quindi nel giusto: osservavo la mia situazione dal punto di vista
dello sfigato senza futuro che mi ricucivo addosso. Invece, posso dire che in
fondo m’impegnavo pure coi ragazzi a scuola, producendo anche buoni risultati. Ricordo che
mi ero inventato un concorso per racconti brevi, rivolto ai ragazzi degli
Istituti che gestivamo. Organizzavo ogni anno gite che per metà erano culturali
e per l’altra metà puro divertimento. Per tutti. Vero pure che ogni tanto mi
fissavo per certe situazioni ipocrite che si generavano nelle relazioni coi
colleghi, ma durava solo qualche mese. E poi sfumava nelle nevrosi comuni,
questo almeno era come lo percepivo io. La scuola, con i suoi cicli di studi,
mi dava la possibilità di cambiare ogni tanto le facce con cui avevo a che
fare, colleghi inclusi. Avendo tre sedi, quindi avevo anche la possibilità di
girarmele tutte e tre. Questo avveniva quando andavo in crisi, e uscirne significava
cambiare aria. Devo ammettere che mi sono preso anche diversi periodi di
aspettativa, oltre a riduzioni degli orari, e tante altre scappatoie per non
scoppiare del tutto. Ma la mia ex moglie non sopportava più questo stato di
cose. Voleva tranquillità esistenziale e serenità familiare. Mica aveva torto.
I
miei figli ora chissà cosa pensano davvero di me, dopo che per anni abbiamo
condiviso casa e abitudini, fino alla loro adolescenza. Poi il crollo. La
clinica. La separazione. Sto sragionando aspettando l’incontro con mia figlia,
vorrei mettere in ordine il caos del mio passato, così per ripulire quei
pensieri appiccicosi che sempre mi perseguitano. Lo faccio sempre per
esorcizzare il mio passato strambo, per sembrare migliore agli occhi di Giulia.
No, è inutile far finta di essere normali, ché poi lei s’innervosisce quando lo
percepisce. Ogni due o tre mesi passa a trovarmi. Mangiamo nella trattoria in
collina, lontani dall’opprimente perimetro immenso della clinica. Parliamo un
po’, o meglio, sono io che le faccio mille domande. Ricevo un paio di risposte
lunghe, esaurienti ma articolate, in cui ci infila pure notizie della madre: le
vanno bene le cose con Claudio. Ma di solito poi aggiunge frasi così: anche se
secondo me la malinconia la sta divorando in silenzio. Poi mi da qualche
informazione sul fratello che insegna a Mantova: vedessi come crescono le
figlie. A mio figlio lo vedo solo a Natale e in estate, pochi giorni insieme
per sconfiggere la paura dell’addio. Porta pure le figliolette, che oramai mi
vedono solo come un nonno misterioso e simpatico da temere cautamente.
Quando
mancano ormai pochi giorni dall’arrivo di mia figlia, comincio ad agitarmi già
dal mattino. Parlo troppo, perdo un po’ quello stile riflessivo che mi crea una
certa riverenza da parte degli altri qui dentro. In fondo questa calma
artificiale, fatta di pasticche e riflessioni astratte con Tonino, mi fa stare
bene ma, appena compare la realtà, la mia vecchia realtà che bussa al portone
della clinica, allora mi tira fuori un’ansia urbana e passata, mai del tutto
addomesticata.
Durante
il primo anno in clinica non ho visto nessuno. Dico dei parenti o amici.
Nessuno. Ero agitato e quando esageravo, magari urlando contro un altro
paziente insolente o mi rifiutavo di prendere la terapia, gli infermieri mi
sedavano nella maniera antica: botte. Lì per lì non soffrivo tanto, ché un po’
me le cercavo visto che per capricci esistenziali avevo mollato tutto per farmi
condurre qua. Così, una ramanzina energica ci stava tutta, ammettevo in
silenzio. Ma poi, nei
giorni successivi, quando i lividi diventavano neri, cominciavo a intristirmi.
Allora chiamavo mia moglie, ancora non eravamo separati, magari alle sei del
mattino e le urlavo che era una stronza, per niente umana, una carogna. E lei
rincarava la rabbia dicendomi che non ho combinato nulla nella vita e ora era
giusto che stessi lì. Lo pensavo anch’io che fosse giusto stare qui, visto che
là non avevo combinato granché. Quello che mi faceva piangere, non al telefono,
ma dopo nel corridoio della mensa, era sentirmi dire “e i ragazzi non te li
faccio vedere perché sei pazzo”. Ecco, questo non me lo meritavo. Adoravo i
miei figli, e non potevo sopportare la loro lontananza. Almeno all’epoca. Di
fatto, tra insulti, botte, mie agitazioni, non ho visto nessuno per quasi un
anno. Poi sono cambiato. E le chiamate con la mia ex moglie avevano quel retrogusto
dolciastro che mi faceva dormire bene poi la notte. Sono diventato un paziente
modello, a detta del dottore. Mi ero adattato bene, come sempre nella mia vita.
Quando si tratta di sopravvivenza tiro fuori una forza oscura e funzionale.
Domani
arriva mia figlia. Spero mi porti il libro che le avevo chiesto. Tutto questo
pensare mi ha stremato, nemmeno la discussione sullo statuto dei lavoratori con
Tonino mi aveva procurato tanta fatica. Una fatica dolce, una stanchezza che sa
di cose belle dentro i fatti brutti. Panna e puzza di ferro bruciato nello
stesso istante che ti avvolgono e stordiscono un po’. Ho sonno. Vado a
sdraiarmi su la solita panchina accanto al vecchio pollaio. Oggi Tonino è di
riposo, andrà al cinema con Giovanna. Dormo un po’, prima che arrivi l’ora
della cena. Prima che i pensieri divorino il ricordo di certe faccine che mi
faceva mia figlia da piccola, al parco, davanti alla fontana con quegli schizzi
improvvisi. Era tenera Giulia davanti a quell’acqua gioiosa che s’infrangeva
arresa al vetro della Nikon, poco prima dello scatto. Poco prima del crollo.
Poco prima.
“Ciao
papà. Scusa il ritardo ma ‘sti treni sono sempre più lenti”.
“Non
ti preoccupare. Vuoi un po’ d’acqua fresca?”
“Sì,
grazie. Papà voglio farti subito una proposta: vieni a vivere a casa mia?”.
“Ma
stai scherzando? Vero?”
“No,
ci penso da tempo. Cosa resti a fare qui? Non sei più giovane. Starai da me.
Tanto col lavoro che faccio a casa ci sto solo la notte e un po’ la mattina.
Faremo colazione insieme. Poi le giornate le passerai in giro per il paese. Al
mercato del pesce. Oppure in casa a leggere i tuoi libri. No?”
“Giulia…
a me non dispiacerebbe, ma come faccio… devo finire di raccontare la storia a
Tonino”.
“Lo
chiami al telefono, o lo puoi invitare di tanto in tanto a venire al paese.
Papà, ma ora non ti puoi mettere a pensare a Tonino”.
“Non
posso lasciarlo senza aver terminato la storia, lui ne ha bisogno”.
“Assurdo,
assurdo. Ma come fai a pensare a queste cose? Boh...
“Sono
contento che tu mi voglia vedere in giro per il paese, è bella come immagine,
ci starei bene dentro. Però, Giulia capiscimi, sono quindici anni che sto qui e
avrei bisogno di un po’ di tempo per disabituarmi. Mica posso uscire oggi
all’improvviso. Dammi un po’ di tempo. Magari in autunno ti raggiungo”.
“In
autunno! In autunno, ma perché? Hai sempre bisogno di tempo per te. Vero? Alla
fine hai usato sempre la maniera più comoda di prendere tempo davanti a una
scelta. Che però non hai fatto mai, non è vero? Ora è Tonino con le sue
ossessioni a farti rallentare. Papà, pensaci bene, è un’occasione per ripartire
con più dignità. In fondo, fare colazione assieme è stata tra le cose più belle
che abbiamo fatto in passato”.
Giulia
come sempre mi ha scosso col suo temperamento pieno di rabbia e desiderio. Mi
spaventa l’idea di diventare un peso. E poi quanto potrà durare? Qui poi non mi
riprendono più, che ti credi. Qui ho il posto fisso, sto meglio degli statali,
e Tonino si sarebbe fatto una risata a questa mia battutaccia. E pure Giulia.
Nei prossimi giorni nella testa di Giulia sarò un misto di rancore e speranza.
Vorrei mescolare il tutto per una notte intera e poi decidere. Ma non ce la
faccio. Non decido da quindici anni. Dovrebbero farmi un TSO al contrario.
Un’ambulanza a sirene spiegate che mi sbatta dentro casa di mia figlia. Con le
comari fuori a bisbigliare sbigottite. E poi? Niente, mi sa che intanto finirò
di raccontare a Tonino gli anni settanta. Dopo, nei giorni seguenti, scriverò
una cosa carina e significativa a tutte le persone a cui voglio bene qui
dentro; solo allora me ne starò ancora qualche giorno su questa panchina a
decidere sul da farsi: alle cuffie avrò a tutto volume le canzoni di Modugno a
sostenermi per l’impresa. E' il massimo che io possa fare per te. Credimi.