Mi sono preso
una scatola di plastica, di quelle che si ripongono negli armadi, con coperchio
e chiusura ermetica. Vado nei posti dove conduco i laboratori per bimbi
piccolissimi e i loro papà, con questa scatola di plastica gialla. Mi sento un
po’ come F.F. quando arrivava sul palco, negli anni ’90, con un borsone da
palestra piena di cavi, jack e altre
cosette per il concerto. Come lui in quegli anni (almeno credo) anch’io in
questo periodo mi sento in bilico tra il fallimento e la voglia di insistere,
magari fino al fallimento, che potrebbe essere un inizio in bilico.
Di far parte del
mondo delle parole – solo parole e niente vita – non se ne parla; di aggiustare
il tiro nei confronti dei miei capi attuali e ripartire, proprio no. Resta il
coraggio di mostrare le braccia senza tatuaggi coi muscoli tutti intatti,
disegnati da un gene inquieto e irriducibile. Sono gli stessi muscoli del
ragazzo che ero, di passaggio nelle stazioni arrugginite degli anni ’80, in
quelle sale d’aspetto piene di pedofili che non avevano ancora sulla schiena questa
definizione scialba quasi a legittimarli. La stazione termini era piena anche di
tossici, che loro hanno sempre avuto le peggiori definizioni sulla pelle,
perché della loro condizione derelitta aveva sete quella società: erano il
confine spinato da cui strappare i figli già viziati d’inganni finanziari, e
pieni di solitudini di benessere allucinato. Non ero adatto a quegli
estremismi, a quelle manie di postumi da benessere mal gestito; aggiravo quei
pericoli senza fatica, sicuro dello splendore che nascondevo sotto la
maglietta. A me bastava girare per le città col naso all’insù e fiutare gli
innamoramenti che esplodevano tra le vetrine e le panchine. Roma mi eccitava
per tutto il tempo che la calpestavo con quel mio passo veloce e sincero. Avevo
bisogno di questo allora.
Insomma, con
questa scatola di plastica provo a risistemare l’inventario delle mie aspirazioni,
sputando fuori il già visto per continuare ad aspettare nel mio giardino di
foglie gialle le persone migliori, quelle che ti fanno le domande e
s’immaginano le cose che racconti. Che ascoltano, come faccio io con loro,
sempre, ogni singola parola di racconto, ogni inciampo a cui presto orecchio e
braccia. Non sono un buono, no, ma so
di essere sensibile, e questo a volte significa complicarsi la vita; so di
essere attento utilizzando distrazioni che vanno a cercare i dettagli
sconosciuti alle masse. Che, come da mille anni, sono macigni con cui trattare per
avere lo spazio necessario per amare e continuare a lottare. Senza farsi
impaurire restare in bilico tra l’odio e tutto il vuoto intorno che ci
protegge.
Stanotte riconoscere
il dolore e tenerlo al fresco, accanto al latte.
(incipit) Quella
capanna lurida di cocci e legno ha seppellito ogni possibile conformismo, da lì
ogni mattino mi sono risvegliata, e il lenzuolo ipocrita, abbagliava ogni
ripartenza. Già al pomeriggio, in
quell’ufficio metallico balbettavo e tremavo davanti agli altri e le cosce mi
buttavano giù. Senza pronunciarne una le mie parole urlavano schiaffi dalla
bocca. E tu dal treno grigio ancora non mi amavi.
1 commento:
muscoli? ah ah. mi piace sempre leggerti!
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