Me ne stavo lì
con quella pezzetta umida a pulire quei tavolini tondi. Almeno decine di volte
al giorno. Avevo tredici anni. Già non volevo andare più a scuola. Ah! la
primina. Era inverno. Tutti gli altri ragazzini stavano con le gambe sotto i
banchi, e agitavano quelle mani bianche che volevano toccare tutto. A me
bastava osservare i personaggi stralunati che frequentavano il locale dove servivo.
Diecimila lire al giorno. A mezzanotte in punto C. me li dava. Ero
soddisfatto. Fino alla settimana prima mi alzavo alle tre di notte, e poi per
ore tiravo una rete puzzolente insieme a vecchi di cent’anni, e mio padre.
Volevo lavorare
e diventare grande, senza passare dalla scuola. Lavoravo dalle tre a
mezzanotte. Poi sono arrivato ai quattordici anni e mi sono lasciato convincere
a tornare a scuola. A singhiozzo tra scuole e fughe, a diciassette anni, sono
arrivato al ritiro definitivo, infatti, sul diario scrivevo già il mio futuro
di Firenze; anzi, posso dire quasi definitivo, considerando che mi sono diplomato
a ventisette anni e laureato cinque anni dopo - fuori tema, da sempre,
anticipavo la fine. Riconosco che avevo una capacità particolare a tredici anni:
di dare consigli, suggerimenti, e così facevo durante il tragitto locale-casa,
a E., dentro la sua Lancia Delta, che percorreva il lungomare buio a dieci
all’ora. E gli davo i consigli per la gestione del locale. Lui annuiva
riflessivo, ora io a quell’uomo di trentuno anni che ascolta un ragazzino con
quell’interesse, stimolato dalle sue riflessioni dopo la mezzanotte, oggi, a quell’uomo
gli darei il nobel per la pedagogia speciale. Ero timido. Coi baffetti. A volte sbucava una roscia di diciotto anni
che mi accarezzava per strada, e io mi paralizzavo, e sorridevo spaurito. Poi scappavo
a casa a chiudere l'eccitazione. Insomma, fuori tema, sempre. Dicevo, E. mi ascolta e io mi sento
compreso. Tornando a E. e a quel periodo, posso dire che investivo su di lui e
sul lavoro al locale, come luoghi e persone da dove ripartire verso una
clamorosa rinascita. Alcuni parenti mi avevano già segnato come irrecuperabile.
E io recuperavo altrove, tra tavoli tondi e osservazioni minuziose dei profili
degli avventori. E ancora, me ne stavo tra birre spillate e coni gelato alti
come le mie speranze. Le lente chiacchiere dei clienti al banco, la bella musica
che si ascoltava, e tutti quei racconti mirabolanti o tristissimi, che si
mescolavano tra fumi di luci basse, nascendo da quei tondi tavolini. A cerchio.
Ascoltavo. Li ho anche fotografati, appena dopo la fine della timidezza
assoluta. Iniziavo a impormi, a far vedere una parte di me imprevedibile e
simpatica. Ero strano. Bravo ragazzo, ma un po’ strano. Tutto intorno esplodeva
e io recitavo una parte niente male. Andavo a letto con i complimenti di E.
“hai proprio ragione, è una buona idea…”, e con tre cornetti alla crema
avanzati dalla mattina, nello stomaco. E
diecimila lire sul comodino. Domani mi compro “Repubblica”, che, anche se
capisco metà delle parole che ci sono scritte, mi fa sentire forte e pronto. A
cosa? Alla vita che vorrei. Al mondo cui aderire col sorriso in faccia. Questo
era uno dei consolanti pensieri che mi aiutavano ad addormentarmi su quel letto
di formica.
Poi, dopo alcuni
anni di lavoro intenso, risate, amicizie inimmaginabili, amori celati, paure
enormi, ecco, arriva lo sbrocco. Dicevo, dopo anni che sgobbavo lì, che
costruivo la mia storia tra tavoli tondi e persone che adoravo, questi, C. ed
E., ci fanno pagare il conto (salato) dopo aver mangiato e bevuto all’inaugurazione
del nuovo locale che avevano preso in gestione. Che avevamo pulito noi, tra
l’altro, nei giorni precedenti, noi, il gruppo dei camerieri e baristi del
locale coi tavolini tondi. E no! Mi provochi dentro, tra l’amigdala e il
fegato. Mica so’ scemo, sono solo un po’ generoso. Così, nel giro di una
settimana li mando a fanculo. Senza ripensamenti. Dopo di me anche gli altri.
Un gruppo che si sfalda come lava, anche se il mare poi ha raffreddato l’intensità
nei mesi successivi, per loro, non certo per il mio orgoglio. Ora d’estate ogni
tanto mangio i panini da loro, coi miei figli, e li osservo nella loro
incipiente vecchiaia, e allora mi
scoraggio del mio ancora combattere – del mio sbroccare - contro altri mostri
attuali. Poi una smorfia mi spinge a vedere la pace conquistata, con loro, e
con il passato che ci univa.
Ecco, questo
circolo virtuoso che diventa improvvisamente lava incandescente mi dà da pensare,
da sempre. Fuori tema, appunto. Improvvisamente,
sì fa per dire, cari miei tre milioni di lettori abituali, poiché nel frattempo
avevo digerito tonnellate di pensieri tormentati che si mescolavano,
accoppiavano o litigavano la notte, poi al mattino, quello con l’impeto
evoluzionista dichiarava: vuoi migliorare? Allora continua a sopportare,
concediti soltanto un po’ d’onestà intellettuale e qualche gioia
para-esistenziale, da mostrare agli altri senza pudore, notte e giorno. Il
resto però gonfiava ogni cellula: le ingiustizie intraviste, lo sfruttamento implicito, in fondo quella
presa per culo cattocomunista di sempre: stai con noi, il mondo sarà migliore
per tutti. Eh sì, ma Loro intanto compravano case in Abruzzo o moto di grossa
cilindrata, o case in Toscana, e collane d’argento alle loro
donne. A me toccano le scorie del fallimento fiammante, e due o tremila parole
frizzanti da dare in pasto agli amici. Ecco, la parabola nevrotica si è
compiuta. Adesso, là fuori, sotto la pioggia, già fradicia e leggiadra, c’è una
bambina col vestitino d’illusione che picchia duro alla porta.
Che dite, la
faccio entrare anche stavolta attraverso la finestra rotta?
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