Oggi ho visto un manifesto che
pubblicizzava un evento letterario. Dichiarava che si trattava di letteratura
libertaria, ribelle o giù di lì. C’era scritto di editori precari e anche
scrittori precari, e poi una serie di figure precarie o ribelli o clandestine.
Slogan. Solo slogan. Fino all’altro ieri anch’io campavo di slogan, i miei manifesti
erano le parole prese a prestito da situazioni gonfiate già da altri. Dagli
anni settanta fino all’altro ieri. Sono stufo. Sono sereno. Perché ho scelto di
parlare con i miei piedi, e di raccontare con le mie debolezze. So di poter far
meglio ma anche di non fare nulla. Avrei dovuto strappare quel manifesto pieno
di slogan, ma perché? In fondo non m’interessa contrastare qualcuno o qualcosa,
vorrei soltanto affermare il mio mondo, il mio limite verde.
L’altra sera ho assistito a un
concerto di un gruppo che fa musica gradevole, con impegno e stile. Eravamo una
ventina a sentirli eppure oggi penso commosso alla loro gentilezza e al loro
furgone pieno di strumenti e ambizioni. Giusto che sia così altrimenti perché
non cantare soltanto per la propria fidanzata?
L’altra mattina ho coordinato un
gruppo di papà coi loro bimbi, credo sia stato un momento di serenità per me e
per le loro storie acerbe. Ci sporcavamo le mani assieme senza conoscere i
nostri segreti intimi, e con essi le nostre ambizioni, le nostre fughe da
vicoli stretti. Vedere una collaborazione viva tra i bimbi e i papà e tra bimbi
e bimbi, e tra me e tutti loro, in una stanza di luce obliqua che metteva in
rilievo le forme appena realizzate, be’, tutta questa mescolanza umana mi ha
proiettato fuori dall’incubo durato vent’anni. Il piano è resistere, dice il
cantante.
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