Amo il venerdì sera perché
scaccia le nuvole nere e le angosce dei cinque giorni precedenti. Poi se ti
arriva lo stipendio due giorni d’anticipo allora scappi alla coop a riempire il
carrello come se fosse l’ultima spesa che hai a disposizione. Prendi il pollo
allo spiedo che mette sempre allegria. Il banconista ride e sembra un gallo. I
bambini corrono lungo i larghi corridoi semivuoti e a tratti, quando urlano per
farsi vedere, sembra di stare dentro a uno Shining di provincia. Papà mi prendi fifa ’12? No, a Natale.
Dopo cinque minuti: mamma mi ha detto di
sì, prendo quello usato a dieci euro. Certo, caro figlio mio, visto che lo
stipendio in anticipo è contagioso e scaccia le nuvole nere di tutti, in fondo.
Alla cassa siamo rimasti un quarto d’ora col rullo in azione, ci mancava poco
che la commessa ci chiedesse un invito a cena. Il pollo e lo stinco si
agitavano tra detersivi e merendine. Il vino rosso di traverso tranquillizzava
tutti gli altri prodotti inquieti. Nessuno di questi pazienti prodotti ancora non sapeva in
quale casa sarebbero finiti. A me i prodotti nei centri commerciali sembrano
tutti vivi e pensanti. Me li immagino di notte, in quell’ultima notte che passano assieme
sopra a quei scaffali bui, a raccontarsi come sono finiti là, e sperare di
ritrovarsi magari in qualche casa. Nella stessa credenza. Ascoltare le voci di
quella casa e assaporarne il clima e quei lunghi silenzi che certe case
contemporanee sanno mantenere. A volte scadono i prodotti, e se ne stanno là,
in pace, oltre ogni possibile casualità, dentro stipi chiusi. La sera alle
quiete cene sopraggiungono urla e silenzi imbarazzanti fatti di pizze prese
all’ultimo minuto. Così loro restano ancora qualche giorno, fino a quando a Lei
non viene voglia di ricominciare a sperare. Allora fa fuori il passato e la
polvere. E tutti loro.
Adesso lo scontrino più
lungo della storia della mia famiglia se ne sta tra due calamite sul
frigorifero. Un miracolo. Fino a stamattina scroccavo caffè a lavoro con la
scusa che non avevo spicci. E facevo pure le mosse. Mi devo vergognare? E
perché? Sto raccontando il quotidiano, e di certo non come fa solitamente la televisione, con le
sue morbosità che prendono forma di tette e di facce truccate male. Per
esempio, del caso mediatico del bambino conteso a Cittadella, a me non importa
più nulla. M’importa forse della sofferenza che smagrirà ancora di più la storia di quel bambino,
ma non voglio ascoltare le urla strumentali di parenti per gli occhi di quei telespettatori vari, che così riempiono le flaccidi menti di questo dolore di seconda mano; e mentre lo fanno si sistemano quelle penose
pettinature lucenti. Andate al diavolo insieme alle vostre misere concessioni
in fatto di diritti e dignità.
Restano le belle canzoni,
le telefonate d’affetto e il grappino che sta ingrossando il mio fegato con
passione. E i suoni, quelli del venerdì sera che promettono bonaccia appena
fuori dalla porta. Neppure un rospo sull’uscio.
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