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lunedì 9 luglio 2012

sulla panchina


      Sbuffo il fumo della sigaretta che mi ha lasciato Tonino a fine turno. Nel farlo, mentre osservo questi pini giganteschi davanti ai miei occhi, penso al viale di platani che mi conduceva a scuola. Da piccolo. E quegli alberi erano i miei baobab. Penso a mia madre che mi accompagnava con quell’aria sognante. Assente, a volte. Io ero contento e mi divertivo a scivolare ai lati dei gradini sul liscio marmo levigato da mille sederi come i miei, o a scambiare le figurine con i compagni, poco prima che la campanella scolastica anticipasse i rintocchi del campanile comunale. La sfida a questo punto era tra il bidello e il messo comunale, quest’ultimo più statale dell’altro nell’esser calmo di burocrazia.

Tonino quando ha finito di sbrigare con le terapie e i vari giri nei reparti per verificare se stiamo tutti tranquilli, poi gli rimane un po’ di libertà che spende ad ascoltarmi. Siccome sono stato professore d’Italiano, e appassionato di Storia contemporanea, lui vuole sapere da me quello che è successo davvero negli anni settanta, soprattutto in Italia. Dice che in quegli anni lì, terribili e creativi, si è trasformato tutto. Poi mi suggerisce che bisogna analizzare a fondo tutte le questioni che sono state affrontate in quegli anni di fermenti e cambiamenti sociali epocali, per capire meglio quello che siamo diventati. Un po’ credo che abbia  ragione, e così ci mettiamo a fare queste chiacchierate storiche con l’intento di capirci di più entrambi. A me piace farlo, mi tiene vivo dentro questo pre-obitorio fatto di zombie coi camici  e sciroccati vestiti malissimo. Anche se ci sono dentro anch’io in questa moltitudine umana barcollante di anime che ancora cercano qualcosa, tra gli infiniti viali e i bui corridoi, ma almeno io la mattina mi scelgo la camicia da mettere.

 Tonino mi chiama sempre professore, e questo mi lusinga un po’. L’ho fatto per dieci anni in una scuola privata, e fu un’occasione d’oro dopo altri dieci di gavetta tra i mille istituti della città, e doposcuola vari. Così un giorno a un convegno sulla “Didattica come strumento di emancipazione”, conosco Piero, il direttore della scuola privata “Montale”, e facciamo una bella chiacchierata, durata un intero pomeriggio al tavolino del chioschetto di viale Ippocrate, sull’importanza degli studi nel trasformare la propria vita in meglio. A settembre stavo già nel suo istituto a insegnare Italiano e Storia a ragazzetti un po’ viziati e un po’ ambiziosi. Anzi, a dire il vero, ambiziosi lo erano soprattutto i loro genitori poiché credevano, iscrivendoli da noi, che poi avrebbero disegnato un percorso scolastico su misura per i loro figli d’allevamento. Illusi anche loro.

Tonino non si stanca mai di ascoltarmi e a volte resta anche oltre il proprio turno di lavoro, e questo accade quando c’è ancora da dire sull’argomento iniziato e che non si può rimandare al suo prossimo turno di lavoro, poiché si spezzerebbe il filo. L’incanto. Affrontiamo scientificamente ogni segmento di quegli anni, perché vogliamo costruire un atlante per le nuove generazioni. Questo lo dice Tonino che pensa di ricavarne qualcosa da queste discussioni, lezioni direbbe lui, poiché crede sia importante approfondire la conoscenza dei fatti per riuscire ad orientare meglio nel mondo le nuove generazioni. Lui ci crede. Io invece, quando parlo con lui, passo il tempo nei migliori dei modi possibili qui dentro, e con una limonata fresca davanti in estate, o un orzo bollente d’inverno, è il massimo di quello che posso aspettarmi da questo posto. Allo spaccio-bar gestito dai pazienti le opzioni d’acquisto sono poche. Io mi arrangio anche lì, tanto resistere per me significa soprattutto poter mettere tutti i giorni un vestito diverso, elegante, così da conservare almeno lo stile nel tempo che mi rimane. A me è sempre piaciuto lo stile, pur dentro il peggio delle umane possibilità che mi sono capitate.

Esco poco dalla clinica. Anche se non ho limiti alle uscite, preferisco stare dentro. Ogni mattina esco soltanto per comprare le sigarette, poi mangio una ciambella e bevo un caffè, e mi leggo tutti i quotidiani del bar, e basta. Un tempo uscivo più spesso e anche per l’intera giornata, lo facevo anche per smaltire tutta l’inquietudine che producevano i miei tanti pensieri inquieti. Mi capitava di uscire in compagnia di Rosetta, un’assistente sociale che avevo conosciuto durante l’anno che aveva lavorato da noi. Con lei passavo giornate in giro con la sua auto a parlare e ridere di quello che abbiamo combinato nei nostri passati remoti. Si andava anche nei mercatini o nelle librerie. Qualche volta pure al cinema. Poi, scansato il pudore delle differenze di status, ci rotolavamo sul suo letto a due piazze. Lei viveva da sola e quel letto accoglieva pure qualche altro ragazzo occasionalmente. Così mi diceva. Non vedo più Rosetta dal giorno che mi ha raccontato cose troppo tristi sulla sua famiglia: non ce la facevo più, visto che con lei uscivo per cercare un’oasi femminile dopo le giornate vuote e maschili della clinica. Qualche anno fa mi ha scritto una bella e articolata lettera. Spiegava con delicatezza che forse è stato meglio così per noi due, cioè, dichiarava pure che con me è stata una cosa speciale, ma, a pensarci bene, chiosava che sarebbe stato difficile proseguire. Si era fidanzata. Bastavano queste parole ed io avrei capito lo stesso, invece, col gusto delle complicazioni, mi aveva fatto una disanima un po’ professionale e un po’ da ex fidanzata sulla nostra stramba relazione. Che poi non era così stabile, infatti nessuno di noi due pensava di essere fidanzato con l’altro. Dopo di lei ho smesso di uscire in quel modo. Solo piccoli gesti quotidiani che mi aiutano a non smettere di conservare dignitose abitudini, soprattutto la mattina, prima che arrivi l’assistente con i suoi modi brutali a servirci la colazione e a ribadirci rozzamente la nostra misera condizione. Io prendo solo i biscotti e m’incammino verso il bar.


Ho avuto anche una moglie, certo. E pure due figli. Sono stato un discreto padre di famiglia, e un decente marito. Ma che fatica. Amavo mia moglie, e i suoi modi dolci e accoglienti. E le sue intuizioni fulminanti.  Un po’ meno amavo le sue pretese di vedermi normale. Ogni volta che avevo una crisi, e ne avevo una ogni due o tre anni, mi diceva che la dovevo smettere di fare il ragazzino. Come se dipendesse da me, le suggerivo col quel tono di voce flebile e senza convinzione che mi usciva in quei momenti di crisi. Aveva ragione, ora lo so. All’epoca ero avvolto in una nebbia sentimentale che mi faceva sentire bene sempre nel torto, quindi nel giusto: osservavo la mia situazione dal punto di vista dello sfigato senza futuro che mi ricucivo addosso. Invece, posso dire che in fondo m’impegnavo pure coi ragazzi a scuola,  producendo anche buoni risultati. Ricordo che mi ero inventato un concorso per racconti brevi, rivolto ai ragazzi degli Istituti che gestivamo. Organizzavo ogni anno gite che per metà erano culturali e per l’altra metà puro divertimento. Per tutti. Vero pure che ogni tanto mi fissavo per certe situazioni ipocrite che si generavano nelle relazioni coi colleghi, ma durava solo qualche mese. E poi sfumava nelle nevrosi comuni, questo almeno era come lo percepivo io. La scuola, con i suoi cicli di studi, mi dava la possibilità di cambiare ogni tanto le facce con cui avevo a che fare, colleghi inclusi. Avendo tre sedi, quindi avevo anche la possibilità di girarmele tutte e tre. Questo avveniva quando andavo in crisi, e uscirne significava cambiare aria. Devo ammettere che mi sono preso anche diversi periodi di aspettativa, oltre a riduzioni degli orari, e tante altre scappatoie per non scoppiare del tutto. Ma la mia ex moglie non sopportava più questo stato di cose. Voleva tranquillità esistenziale e serenità familiare. Mica aveva torto.

I miei figli ora chissà cosa pensano davvero di me, dopo che per anni abbiamo condiviso casa e abitudini, fino alla loro adolescenza. Poi il crollo. La clinica. La separazione. Sto sragionando aspettando l’incontro con mia figlia, vorrei mettere in ordine il caos del mio passato, così per ripulire quei pensieri appiccicosi che sempre mi perseguitano. Lo faccio sempre per esorcizzare il mio passato strambo, per sembrare migliore agli occhi di Giulia. No, è inutile far finta di essere normali, ché poi lei s’innervosisce quando lo percepisce. Ogni due o tre mesi passa a trovarmi. Mangiamo nella trattoria in collina, lontani dall’opprimente perimetro immenso della clinica. Parliamo un po’, o meglio, sono io che le faccio mille domande. Ricevo un paio di risposte lunghe, esaurienti ma articolate, in cui ci infila pure notizie della madre: le vanno bene le cose con Claudio. Ma di solito poi aggiunge frasi così: anche se secondo me la malinconia la sta divorando in silenzio. Poi mi da qualche informazione sul fratello che insegna a Mantova: vedessi come crescono le figlie. A mio figlio lo vedo solo a Natale e in estate, pochi giorni insieme per sconfiggere la paura dell’addio. Porta pure le figliolette, che oramai mi vedono solo come un nonno misterioso e simpatico da temere cautamente.

Quando mancano ormai pochi giorni dall’arrivo di mia figlia, comincio ad agitarmi già dal mattino. Parlo troppo, perdo un po’ quello stile riflessivo che mi crea una certa riverenza da parte degli altri qui dentro. In fondo questa calma artificiale, fatta di pasticche e riflessioni astratte con Tonino, mi fa stare bene ma, appena compare la realtà, la mia vecchia realtà che bussa al portone della clinica, allora mi tira fuori un’ansia urbana e passata, mai del tutto addomesticata.
Durante il primo anno in clinica non ho visto nessuno. Dico dei parenti o amici. Nessuno. Ero agitato e quando esageravo, magari urlando contro un altro paziente insolente o mi rifiutavo di prendere la terapia, gli infermieri mi sedavano nella maniera antica: botte. Lì per lì non soffrivo tanto, ché un po’ me le cercavo visto che per capricci esistenziali avevo mollato tutto per farmi condurre qua. Così, una ramanzina energica ci stava tutta, ammettevo in silenzio.   Ma poi, nei giorni successivi, quando i lividi diventavano neri, cominciavo a intristirmi. Allora chiamavo mia moglie, ancora non eravamo separati, magari alle sei del mattino e le urlavo che era una stronza, per niente umana, una carogna. E lei rincarava la rabbia dicendomi che non ho combinato nulla nella vita e ora era giusto che stessi lì. Lo pensavo anch’io che fosse giusto stare qui, visto che là non avevo combinato granché. Quello che mi faceva piangere, non al telefono, ma dopo nel corridoio della mensa, era sentirmi dire “e i ragazzi non te li faccio vedere perché sei pazzo”. Ecco, questo non me lo meritavo. Adoravo i miei figli, e non potevo sopportare la loro lontananza. Almeno all’epoca. Di fatto, tra insulti, botte, mie agitazioni, non ho visto nessuno per quasi un anno. Poi sono cambiato. E le chiamate con la mia ex moglie avevano quel retrogusto dolciastro che mi faceva dormire bene poi la notte. Sono diventato un paziente modello, a detta del dottore. Mi ero adattato bene, come sempre nella mia vita. Quando si tratta di sopravvivenza tiro fuori una forza oscura e funzionale.


Domani arriva mia figlia. Spero mi porti il libro che le avevo chiesto. Tutto questo pensare mi ha stremato, nemmeno la discussione sullo statuto dei lavoratori con Tonino mi aveva procurato tanta fatica. Una fatica dolce, una stanchezza che sa di cose belle dentro i fatti brutti. Panna e puzza di ferro bruciato nello stesso istante che ti avvolgono e stordiscono un po’. Ho sonno. Vado a sdraiarmi su la solita panchina accanto al vecchio pollaio. Oggi Tonino è di riposo, andrà al cinema con Giovanna. Dormo un po’, prima che arrivi l’ora della cena. Prima che i pensieri divorino il ricordo di certe faccine che mi faceva mia figlia da piccola, al parco, davanti alla fontana con quegli schizzi improvvisi. Era tenera Giulia davanti a quell’acqua gioiosa che s’infrangeva arresa al vetro della Nikon, poco prima dello scatto. Poco prima del crollo. Poco prima.


“Ciao papà. Scusa il ritardo ma ‘sti treni sono sempre più lenti”.

“Non ti preoccupare. Vuoi un po’ d’acqua fresca?”

“Sì, grazie. Papà voglio farti subito una proposta: vieni a vivere a casa mia?”.

“Ma stai scherzando? Vero?”

“No, ci penso da tempo. Cosa resti a fare qui? Non sei più giovane. Starai da me. Tanto col lavoro che faccio a casa ci sto solo la notte e un po’ la mattina. Faremo colazione insieme. Poi le giornate le passerai in giro per il paese. Al mercato del pesce. Oppure in casa a leggere i tuoi libri. No?”

“Giulia… a me non dispiacerebbe, ma come faccio… devo finire di raccontare la storia a Tonino”.

“Lo chiami al telefono, o lo puoi invitare di tanto in tanto a venire al paese. Papà, ma ora non ti puoi mettere a pensare a Tonino”.

“Non posso lasciarlo senza aver terminato la storia, lui ne ha bisogno”.

“Assurdo, assurdo. Ma come fai a pensare a queste cose? Boh...

“Sono contento che tu mi voglia vedere in giro per il paese, è bella come immagine, ci starei bene dentro. Però, Giulia capiscimi, sono quindici anni che sto qui e avrei bisogno di un po’ di tempo per disabituarmi. Mica posso uscire oggi all’improvviso. Dammi un po’ di tempo. Magari in autunno ti raggiungo”.

“In autunno! In autunno, ma perché? Hai sempre bisogno di tempo per te. Vero? Alla fine hai usato sempre la maniera più comoda di prendere tempo davanti a una scelta. Che però non hai fatto mai, non è vero? Ora è Tonino con le sue ossessioni a farti rallentare. Papà, pensaci bene, è un’occasione per ripartire con più dignità. In fondo, fare colazione assieme è stata tra le cose più belle che abbiamo fatto in passato”.


Giulia come sempre mi ha scosso col suo temperamento pieno di rabbia e desiderio. Mi spaventa l’idea di diventare un peso. E poi quanto potrà durare? Qui poi non mi riprendono più, che ti credi. Qui ho il posto fisso, sto meglio degli statali, e Tonino si sarebbe fatto una risata a questa mia battutaccia. E pure Giulia. Nei prossimi giorni nella testa di Giulia sarò un misto di rancore e speranza. Vorrei mescolare il tutto per una notte intera e poi decidere. Ma non ce la faccio. Non decido da quindici anni. Dovrebbero farmi un TSO al contrario. Un’ambulanza a sirene spiegate che mi sbatta dentro casa di mia figlia. Con le comari fuori a bisbigliare sbigottite. E poi? Niente, mi sa che intanto finirò di raccontare a Tonino gli anni settanta. Dopo, nei giorni seguenti, scriverò una cosa carina e significativa a tutte le persone a cui voglio bene qui dentro; solo allora me ne starò ancora qualche giorno su questa panchina a decidere sul da farsi: alle cuffie avrò a tutto volume le canzoni di Modugno a sostenermi per l’impresa. E' il massimo che io possa fare per te. Credimi.




Racconto contenuto nella trilogia "quando la finisci di scrivere 'ste cose?".  Editore impossibile. Collana "utopie necessarie". Roma 2012

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