Questo porto non lo sopporto più. Vedo
sempre le solite quattro barche vecchie con la ruggine che scende dai lati, e le
funi pelose che pendono e puzzano solo a guadarle; e pure quel chioschetto squallido
laggiù a sinistra, poco prima della pompa di benzina mezza abbandonata, dove i
pochi avventori riescono a tenerlo in vita coi loro caffè corretti.
A Gisella l’avevo detto: resto un paio d’anni,
il tempo di far innamorare Guido e poi scappo via con lui verso Bologna o Roma,
chissà. Proprio così le dissi quella sera che decisi di restare a vivere qui.
Si stava tutti insieme spensierati su quella terrazza poco illuminata e piena
di uomini con camicie bianche sbottonate e donne con tacchi alti e sorrisi
generosi. Era estate, e davanti c’era tanto mare. Ero convinta che la mia vita
avesse incrociato la fortuna di ritrovarsi insieme a persone belle, e lui. Pensavo.
Invece, eccomi qua sopra a questa terrazza maiolicata blu e ben illuminata, con
il grembiule nero fino alle ginocchia, e la sera gli occhi neri di matita che
intimidiscono un po’ gli uomini. Sto con scarpe comode per correre svelta da un
tavolo all’altro, dal martedì alla domenica, estate e inverno. Sempre qui. Mi
rilasso un po’ la mattina al risveglio, sempre sul tardi, quando il sole già
picchia e lascia poca aria in giro. Faccio colazione al bar di Maria, cui sto
raccontando le mie ultime comiche pene. Con i colleghi c’è poco da fidarsi. Poi
continuano ogni giorno, patetici e ottusi, a volermi sedurre con racconti di
vite mai vissute da loro, o con slanci, fatti di battute e sguardi, per conquistarmi
scacciando la mia amica apatia
sociale. In fondo i loro poveri sogni di gloria si vanno a nascondere nella federa
del loro morbido cuscino di mammà, ancora prima dell’alba, quando con facce da
bimbi agognano di smarcarsi da mamme gigantesche, poco truccate e con il tavor sempre
in borsa. Figurati. Stavo, e sto qui, in questa cittadina di mare salata e
senza futuro, solo per rivedere Guido e la sua pittura. Loro lo sanno, ma,
poveracci, si mettono a competere anche contro il suo fantasma, pur di provarci
con me, che sono femmina da conquistare. Nei miei occhi neri riescono a entrare
i pescherecci con le loro reti umide e piene di fravaglia, cosi i pescatori chiamano quei pesciolini senza qualità,
quindi senza commercio, proprio come lo sono i miei colleghi camerieri che
valgono poco davanti all’eleganza di Guido; anche davanti alla sua pittura,
come nella sua capacità di esprimersi con uno stile asciutto e tutto suo. Così
diceva quel critico di Firenze su quel catalogo. Maledetto lo stile e la mia
ostinazione a volerlo bere come fosse limonata fresca. Speravo di baciare Guido
tutte le mattine, così da assaporarne il suo stile, la sua unicità. Farmi
contagiare come una santa col suo oppresso. Che scema, la solita scema
ragazzina di trent’anni che beve cose di cui non conosce gli effetti né il
sapore. Niente.
Questo golfo che diventa ogni giorno
sempre più piccolo, con queste sue casette colorate una diversa dall’altra che
tempo fa sognavo di abitare: svegliandomi nuda accanto a lui avrei potuto
scrivere pure un’altra Guerra e pace
a puntate per il giornale locale, se solo avessi avuto l’opportunità di amare
quell’uomo che adorava questo mare verde. D’inverno, poiché d’estate scappava
in Grecia, da quei suoi amici pittori squattrinati che lui stimava più d’ogni
altra cosa. Di me, sicuramente. Mi considerava una ragazza pigra e viziata da
una famiglia qualunque, ecco, credo sia questa la natura del suo rifiuto. Anche
se so di non avere prove al riguardo, Maria, dimmi tu allora perché mi ha
evitato in questi anni?
“In realtà non hai mai espresso tutta
la tua volontà di sedurlo, no? Allora lui ha fatto quello che avrebbe fatto
chiunque: i fatti suoi. Che sono scelte, occasioni da cogliere. Gesti umani
legittimi. No?”
“Maria, ma tu fai davvero? Stavo
sempre con gli occhi addosso a lui, alle sue mani, al suo profilo…”
“Appunto! Cose vere solo per te,
Giulia cara; tu hai fatto poco per prendertelo davvero.”
Forse ha ragione Maria: ho sempre
aspettato che le cose accadessero solo per gli effetti positivi con cui le
guardavo, e desideravo. La realtà ha vinto. Ora faccio la cameriera per
quaranta euro a serata e aspetto il lunedì per scappare a Roma sperando di
incontrarlo. Frequento tutte le mostre o eventi culturali che propone la città,
e dove possa esserci lui e la sua faccia un po’ triste a illuminare il mondo.
“Giulia! Una margherita al tavolo
uno. Dài, corri.”
In questa pizzeria tutto è povero,
ovvio e senza futuro. Vedi scorrere felicità insieme a pizze, che poi si ferma
lì quella felicità momentanea, su quella pizza farcita sempre più in maniera
esagerata: una volta c’era la capricciosa a fare la differenza, e poteva
bastare. Poi guardo i clienti e capisco che la volgarità si sta mangiando il
gusto, lo stile con cui avevamo fatto un patto, silenzioso, tra cittadini
circondati di bellezza: era lei a proteggerci e non viceversa. Nel tempo. Ora
non so. Dentro questa pizzeria io adoro soltanto la storia di Kaled. L’altro
giorno sono stato a casa sua. L’avevo accompagnato a casa per via
dell’acquazzone improvviso, e che andasse via con quella bicicletta con delle
ruote così piccole per le sue gambe, non mi andava giù. Allora mi sono fatta
coraggio e ho messo da parte quel pudore che aleggia tra me e lui, tra me e la
sua cultura araba. Prima del caffè mi ha fatto assaggiare una sfilza di cose
buone: dolci arabi, cocomero e gelato. Il caffè l’ha preparato la moglie, il
figlio grande ha tagliato il cocomero, e il secondo ha servito i dolci. Gli
altri due, tre e cinque anni, mi fissavano con due olive nere al posto degli
occhi.
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