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venerdì 10 febbraio 2012

lavoriamoci su


Niente, c’è poco da fare. Mi tocca aspettare un colpo di culo; un capitombolo che mi faccia scordare la rabbia e riprendere un cammino leggero verso il mare. Qui tutto intorno solo urla e fegati messi in mostra. Aspetto un vento, tiepido e delicato, che mi faccia respirare aria fresca di levante. Ma con l’aria non si fa una storia, e neppure con le metafore all’una di notte. Mi piacerebbe ancora giocare a fare il ragazzo che aspetta storia mascherata di facce nuove e con bocche traboccanti complimenti e carezze di parole. Ma è scaduto il tempo dell’esser ragazzo.
C’era un tipo della casa dei diritti sociali, tempo fa, che doveva darmi lavoro presso un magazzino. Per qualche mese lo chiamavo o passavo in ufficio o lo cercavo presso l’associazione, quasi tutti i giorni. Lui non mi diceva mai di no, ma neanche di sì. Aspettava. Diceva che bisognava aspettare. Ma cosa? Un giorno vado nel suo ufficio allo scalo di S. Lorenzo e gli chiedo in maniera un po’più decisa se mi dava ‘sto cazzo di lavoro. No, mi risponde. E perché? No, mi sa che tu sei uno che non vuole lavorare… (Sempre stato pacifico io, e forse, a pensarci bene, così facendo non ho contribuito all’evolversi della società). Sorrido, e gli ricordo che lavoro da sempre.
Infatti, già a otto anni raccoglievo pomodori dalle sei del mattino da mio zio; filari stretti e lunghi, verderame che s’infila sotto le unghie, e io che corro più di tutti col secchio pieno. Poi a tredici anni lavoro insieme a mio padre cassaintegrato: andiamo a pescare con altre improvvisate braccia d’uomini. Stavolta però si cominciava alle quattro di notte. Ecco i miei schiaffi di parole per’sto Michele che comodo dietro a una scrivania sputtanava la mia storia, conoscendo solo un mucchio di idiozie ideologiche travestite da solidarietà a buon mercato. Biologico, pure.
Stasera penso di aver sbagliato a elemosinare attenzione da certe persone, perché così facendo ho fatto due passi indietro nella mia evoluzione, e me ne pento. Mi sono iscritto all’università a ventotto anni e a trentuno avevo già finito tutti gli esami. Ho aspettato il cambio della riforma e mi sono laureato discutendo la tesi con mio figlio Lorenzo nel passeggino: 110 senza la lode, perché Franco Alvaro era un po’ come Michele del biologico, entrambi non convinti fino in fondo delle mie capacità. Il mio vittimismo poi ha sfruttato queste storture, e si è lasciato prendere dal pianto delle auto-rinunce, dal punirsi perché non valgo, e tante altre innominabili questioni d’anima e di umani cedimenti.  Adesso staziono in una cooperativa rossa con l’idea che a Michele, e a tutta la sua generazione, dovevo dargli davvero uno spintone e spodestare la loro mummificata saggezza. Allora sì che l’evoluzione mi avrebbe accolto nelle sue lunghe braccia. Ma si sa anche che non riesco a mettere le mani addosso a nessuno, quindi non chiedetemi troppo.

Segue intervista a un socio lavoratore.

Cosa pensi delle condizioni lavorative presso la tua Coop?
Non va così male, ma con 900 euro al mese ‘sti discorsi non hanno senso.
E cosa avrebbe senso?
Non di certo fare la rivoluzione, ma basterebbe applicare bene la Costituzione italiana in ogni luogo.
E come?
Inviare verificatori dell’applicazione della Costituzione italiana, presso aziende, ospedali, luoghi di lavoro in genere; pagati dalla presidenza direttamente.
Basterebbe?
Certo, se applichi i dettami della Costituzione non avresti ingiustizie sociali, quindi lavorative, discriminatorie, etc. In quel testo c’è il meglio per una decente convivenza civile. Basta solo verificare che sia applicata nel suo insieme. Senza la retorica dei grandi eventi ci sarebbero i miglioramenti dei piccoli gesti.
Ora cosa fai?
Sono ricoverato da due mesi in questa clinica psichiatrica gestita dalla mia cooperativa rossa. Tutte le sere leggo Zagor e poi, prima di crollare, anche un po’ di Paperino.
http://lettura.corriere.it/debates/la-sinistra-e-come-mia-zia/ 

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