Ieri ho assistito alla proiezione de "Diario di un
maestro", di De Seta; http://www.romanotizie.it/vittorio-de-seta-diari-di-un-maestro-di-cinema.html
la biblioteaca dove l'hanno presentato sta nello
stesso quartiere dove è ambientato il documentario-film, e non lontano dal Centro dove ho lavorato per un anno intero e intenso, tra disagio e gioia.
Allora ho ripescato una cosa scritta qualche tempo fa e che mi pare attinente,
perlomeno rispetto alla storia dei protagonisti. Eccola.
Il caldo improvviso di
maggio investe l’intera città. Di sicuro, e questo resta un mistero pari a
quello di Fatima, in periferia fa più caldo che nel resto della città. Qui esplode il caldo. Sarà il cemento, l’asfalto
o i pochi alberi presenti, ma questo pensiero mi fa sentire più disgraziato di
quelli del centro.
Ci sono questi due giovani uomini dentro al
bar del nasone, al tiburtino terzo. Al
riparo si raccontavano degli ultimi fatti:
“….e quello lo voleva
buttar di sotto. Diceva: ti piglio per le gambe e ti lancio dalla finestra”.
“E Fabio?”.
“Quello non arretrava. È
di coccio a volte, bravo e paziente lo è, ma il pericolo cazzo, lo vuoi
fiutare?”
“Già, pure quella volta
che Paolo gli stava dando una vangata in fronte. Ti ricordi? E che voleva sfasciare il muretto del giardino
appena costruito.”
“Come no, quel pomeriggio
è dovuta venire la psicologa. Che sembrava la suora in “Amarcord”, quando ha
fatto scendere Ingrassia che urlava: voglio una donna!”.
“Ah ah ah, è vero. Stessa
scena. Cambiava solo il panorama alle spalle. Noi coi palazzoni grigi dagli infissi rossi. Invece nel film un
paesaggio morbido e ovattato.”
“Mo’ ti metti a fa il
critico cinematografico….”
“ Vabbè, che dobbiamo
parlà solo di culi e spacci?”.
“ Infatti, hai ragione,
qui tocca difendersi. Mica abbiamo la famiglia a carezzarci le spalle. Quelli
non ci cacano affatto. Tocca studià, leggere, andare verso il centro. Mortacci
loro”
“Chi?”
“I costruttori, gli
architetti, gli urbanisti. E pure i politici. Una manica de squali incalliti”.
“Vabbè mo’ non
esagerà…insomma, Fabio quella volta che lo volevano lanciare di sotto, alla
fine poi, è riuscito pure a mangiarsi gli spaghetti con le vongole che aveva
preparato Enzo, lo stesso che voleva lanciarlo dalla finestra, poco prima. Ma
se non intervenivo io, con una
trattativa che nemmeno la cigielle, quello stava al Verano ora. Enzo è uscito poco
tempo fa da Rebibbia, e mi sa che ci vuol tornare il prima possibile. Qui è
disadattato….alla prima occasione vuole farsi punire”.
“Bella questa, ma in
fondo è vero. Quelli da noi soffrono. Vogliono la libertà di fare i cazzacci
loro, che non significa vivere bene, no, solo che sanno quello che i loro
codici pretendono da loro. Là dentro a
volte è più semplice che in liberta”.
“Questo è assurdo se ci
pensi; ma noi ne sappiamo poco di loro e delle loro storie. Questo non ce lo
spiegano mica all’università”.
Eccola, ora entra Teresa
nel bar. Completo leopardato e cagnolino ai piedi. A vederla sembra la
Parietti, ma appena apre bocca pure i poster di Tomas Milian alla parete
s’imbarazzano un po’. E’ bella però. Una sgraziata immagine che al tiburtino
diventa una “proprio bona”. E lo sapeva bene Giuliano, che tutte le sere soffriva
sul letto di prigione al pensiero che la moglie potesse andare a casa di
Nazzareno. Quello già una volta non ha risparmiato neppure un lembo della sua carne:
tutta nella sua bocca era passata Teresa. Caviglie comprese. Teresa che poteva
fare? Erano due anni che Giuliano stava dentro. Poi gli ha promesso che non
l’avrebbe fatto più. Almeno fino alla prossima condanna.
Si doveva realizzare un muretto per dividere
il giardino in pendenza, intorno al centro diurno. Giuliano era in forma quella
mattina. Fumava aspirando lentamente le sue Emessemild. Erano già due settimane
che era uscito da Rebibbia, e l’idea di dormire sempre appiccicato a Teresa lo
tranquillizzava, come a un bambino l’orsacchiotto di peluche. Anche se Teresa
era pure esigente: voleva sempre il marito tra le gambe. Una ventosa, diceva
lui al bar. Er Vipera annuiva come a dire” lo so, te capisco…”. Ma non diceva
nulla. Annuiva, appunto.
I due giovani uomini stavano organizzando un
gruppo di lavoro più unico che raro: Giuliano all’impasto; Paolo alla
caldarella; Er Vipera alla carriola; Massimino pronto con l’americana, che
intanto allineava i mattoni; Massimetto tutto fare (chiamateme quando ve
serve); Fabietto al piccone. Fabio alle misure.
La sfida parte verso le
dieci di un mattino di maggio, dopo una serie infinita di cappuccini al bar. “Portame la briosce co’
a crema”, urla Er Vipera. E Massimetto “
a Vipera ma quanto magni, è il terzo da stamattina, li mortacci tua. Sei un
chiodo, sei”.
Si parte. Il via vai nel giardino a elle, che
cinge l’intero edificio dell’Asl, sembra una scena di un film muto. Tutti
accelerano con fare frenetico, e vanno a formare un insieme di formiche appena
sveglie dopo un lungo letargo. Il medico di guardia del primo piano, affacciato
alla finestra, in bocca la sigaretta con la capocchia intera - un vezzo
impiegatizio, che fa incazzare gli operatori del piano terra - “sempre a non
fare un cazzo, ‘sto dottore sta sempre appeso alla finestra a fumà. Poi, quando
i nostri vanno a rota, entra dentro come un codardo. Stronzo”.
Allora, questo con la
sigaretta incapocchiata, non crede ai suoi occhi: “questi so matti, stanno a
lavorà davvero!” dice all’infermiere di turno. Che ribatte al volo:” mo’ mo’,
staranno a fa due cazzate per ottenere un permesso. Questi vogliono solo sta’
lontano da Rebibbia, so figli de ‘na mignotta, so’”.
Invece in giardino questi
uomini non si fermano neanche per fumare. Corrono come neppure si correva al
cantiere dei mondiali del ’90. Giuliano oramai è un masto scelto, e gli altri
lo seguono senza batter ciglio. Pure Massimino, che di solito ha sempre da
ridire, si è messo a disposizione. “A Giulià, quanto cemento ce metto nel
canaletto?”; e poi Er Vipera che brontola coi mattoni sulla spalla; tra loro c’è
da stabilire sempre una gerarchia. Non si scappa, questi senza la gerarchia
s’innervosiscono. Ci vuole. Lì rende migliori.
Ecco i due uomini alla
fine della giornata. Il sole romano sta rendendo tutto arancione, e il
Tiburtino somiglia un po’ assurdamente ai Parioli: una luce calda che annulla
le differenze e fa diventare l’asfalto tappeto orientale. Si stanno
meravigliando stupefatti del loro successo. C’è pure Fabio con loro.
“Ma ti rendi conto? tutti
a lavorare come al cantiere, e neppure li abbiamo pagati”.
“Eh sì, vedessi la
psicologa come gongolava. E pure la segretaria, con la sua solita faccia da
pazza, con quelle sue smorfie di sorriso appese nell’aria. Fabio sei sfiancato, vero?”
“Un po’, ma so’ contento.
Questi hanno fatto proprio sul serio. Paolo sta ancora a controllare il muretto.
Stanotte mi sa che dorme al Centro, si è proprio attaccato all’opera!”.
“Meno male, visto che stiamo
sempre a fargli rispettare le regole, a contestargli i ritardi, almeno hanno
fatto una cosa con volontà e piacere”.
“Altro che psicoterapie
brevi, grandi gruppi e ‘ste fregnacce qui. Questi vogliono fa’ le cose vere”.
“Vabbè che c’entra,
servono pure ‘ste fregnacce di riunioni. Solo che se ne fanno troppe, e questi
poi si rompono”.
“E non sono loro….hi hi hi”.
Poi un altro giorno,
finita la riunione di equipe, i due giovani uomini stanno seduti sulla panchina
di marmoasl nel giardino, che oramai, a detta di tutti, pare un gioiellino.
Forse di lì a poco sarebbe scesa la pioggia, e l’intero quartiere ne avrebbe
accolta più del necessario. Sempre così, qui al Tiburtino le strade pare stiano
lì ad aspettare tutta l’acqua piovana. E come la trattengono, poi. L’Aniene che sta lì accanto pare che soffra
anche un po’ d’invidia. Insomma, anche oggi, nonostante il grigio sulle loro
teste, questi due chiacchierano entusiasti del loro lavoro. Alla fine della
giornata è tutto un ripercorrere tic e battute che gli utenti esibiscono
durante il giorno. Oggi, per esempio, è stata la volta di Massimetto: aveva
raccontato a Fabio, nel salone dove si guarda la tv dopo pranzo, della sveltina
con la sorella di Giuliano. Raccontava ad alta voce, e le parole arrivavano
sonore fino alla cucina, dove i due giovani uomini stavano finendo di lavare i
piatti. Il racconto era più comico che erotico. Prima si è messo a raccontare
com’erano andati a finire sul divano “proprio zozzo” di Giuliano, dove poi avrebbero
consumato; poi delle cassette porno della cognata messe in ordine alfabetico
nel ripiano più alto dello scaffale accanto ai vari padri pii e madonne sante.
Il racconto si ferma un attimo prima della penetrazione, e riprende subito dopo
l’orgasmo sguaiato di lei.
“ Strillava come ‘na
matta. Me tirava li capelli. Me veniva da ride', a Fa’, questa faceva er
terremoto. Pe’ ‘na sveltina. Lì mortacci”.
“Se te sente Giuliano so
cazzi. Quello è geloso. “
“See, mo una a trent’anni
nun se po’ fa’ ‘na scopata in santa pace? “.
Queste scene ambientate
in case più popolari di altrove, con queste facce più romane che altrove, ai
due gli procuravano anche tante risate. Ma c’erano pure altre scene tristi che
davano da pensare. Come quelle in cui Stefano, dopo che si era fatto una pera,
bisognava andarlo a recuperare fino a Monte del pecoraro, visto che dava subito
il numero di telefono del Centro ai passanti: venite, sto male! Chi andava poi
doveva farsi circa un chilometro con Stefano abbracciato che, di tanto in
tanto, cadeva a terra come un fico secco. E piangeva, e quanto si lagnava lungo
la strada. Passavano tra le persone, magari mentre queste uscivano dal
macellaio o dalla farmacia e tu lì con un omone in spalla che piangeva come un
ragazzino. “Non lo voglio fa’ più. So’ un coglione. So’.” E allora gli
parlavano con tono affettuoso, come si fa con un bambino, che vuole farsi
aiutare con le parole che carezzano. Avrebbe dovuto chiamare prima, magari poco
prima che la rota insidiasse la mente. Doveva; ma come si fa a parlare di
dovere a un bambinone così? Questa domanda spesso chiudeva come una sbarra di
malinconia certe discussioni. Soprattutto a casa. Dopo cena. Prima, al Centro
diurno, tutto era esorcizzato con risate e battute a un ritmo punk rock.
Verso la notte i pensieri
a volte diventavano di angoscia e di spavento. Allora uno dei due giovani
uomini pensava alla sua storia di figlio che si era bloccata in un marzo di
tanti anni prima. Subiva ancora l’allergia all’epoca, ogni polline un pensiero.
Ogni fiore un amore da soffocare. Insomma, ora gli toccava fare il
figlio-genitore. Ogni volta a dare consigli a una donna che oramai superava i
sessanta e, a parte il corpo rotondo, poteva appartenere tranquillamente al
mondo delle bimbe. Con gli adulti fingeva un ruolo che il quartiere e alcuni
parenti pretendevano. Il resto erano capricci di vecchietta ingolfata da troppi
pensieri neri. Che alcuni risalivano addirittura al periodo della seconda guerra
mondiale. Addirittura. Lui lo sapeva, e sapeva pure che sarebbe stato sempre
così, se non peggio. I farmaci aiutavano, ma poco, poiché il peggio accadeva
tra una pasticca e l’altra. Lui lo sapeva, ma non vedeva. Era fuori dalla
scena. Lontano. Con un braccio di Stefano piagnucolone a bloccarlo come
tenaglia e che lo costringe a pensare a lui. Solo a lui. Dentro lo squarcio di
luce che passava tra un palazzone e l’altro. Tra profili criminali e seni
aperti al mondo. Poche aiuole a delimitare il bene dal male.
Così capitava che il Tiburtino
terzo diventasse all’occorrenza un esilio adatto alle loro storie mozzicate
dalla sfiga. Ma oramai è buio, e il bus notturno sfreccia così velocemente che
nemmeno ti disturba.
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