Pagine

domenica 28 agosto 2011

cosa avete fatto?


Cosa hanno fatto mentre noi stavamo a centocinquanta km da qui? Il ventilatore come ha fatto a trattenersi durante quelle giornate torride, con tutta quella voglia che aveva di fare il proprio dovere ventilato. E la tv, che quando partivano i cartoni preferiti dei miei figli, come faceva a tenersi spenta. E il rubinetto colmo d’acqua  pronto a farla uscire  per il liscio corpo di mia moglie. E i fornelli che agognavano le solite padelle pronte per il soffritto dei giorni festivi; e la mattina, sempre, che immaginavano la caffettiera posarsi morbida sul suo fornello piccolo.
Il glicine è impazzito di solitudine tanto da arrampicarsi sul tetto e chiedere aiuto: con l’illusione di farsi vedere da noi, stesi sulla spiaggia, lontani troppo lontani per vederlo. Il posto auto chiamava le auto in sosta vietata sulla strada: venite che sono libero e all’ombra.
Pare che nel pomeriggio di ferragosto la radio si sia accesa e, sintonizzata su Moby dick, volesse trovare un po’ di frequenza fino alla nostra casetta in campagna.
Noi stavamo lì, lontani da voi, cari oggetti familiari, e ogni tanto vi pensavamo come si pensa agli amici lontani. Con la certezza di ritrovarvi sempre al proprio posto, con un anno sulle spalle e tanta polvere a camuffare la vostra età: che tanto a noi le cose vecchie piacciono quanto quelle nuove. Per noi voi siete il tutto che ci permette di difenderci dal passato grigio che spesso, quando stiamo in campagna, anche dentro la casetta dorata, ci torna a trovare devastando tutto il presente. Passata la tempesta è tutto un rimettersi in sesto tra di voi, cari oggetti di un presente che è tutta la nostra vita. Oggi. Un po’ ieri, e tutto domani. Dopodomani, già sembra un po’lontano.







sabato 27 agosto 2011

confessioni di fine estate

Così come per "lo svedese" anche per me essere obbediente ha significato sbattere contro la dura realtà delle cose. Nude. Così da farmi piangere di sudore in un pomeriggio strozzato dalla solitudine, unica vera grande e puttana amica. Eppure, in dei pomeriggi di vento o in certe mattine d'alba, con lei, e solo con lei, faccio delle riflessioni da nobel. Ma poi. Cosa serve poi tutto questo farfugliare al buio dagli altri? non è meglio acchiappare un amico, mettergli una birra fresca sotto al naso, e cominciare a parlargli davvero? senza fingimenti o paure, scivolare nei buchi neri che bussano sempre più spesso alla porta. Mica. Che non so poi gestire il tutto? ma sì, sono anni che mi alleno. Sono mesi che scrivo romanzando le mie ossessioni. E dài, non sei mica un bambinetto davanti allo stupore. E'.

giovedì 25 agosto 2011

buongiorno

La prima pasticceria aveva un barista antipatico e cornetti vecchi; la seconda crema ottima e due uomini con la voglia di parlare. Mi sono comprato tanti cornetti e tutta la voglia di vivere di 'sti due. Che poi verso la fine dell'estate non si sa mai: uno potrebbe pure fuggire o abituarsi al vuoto tondo delle ferie.
Meglio aspettare sempre una seconda volta. Meglio. All'inizio ogni persona è sola e nessuna crema a consolarlo.
Questa mattina umida segna il ritorno a pensieri concreti, ogni residuo di vuoto l'ho lasciato nel primo triste bar del giorno. Che sprofondi con tutti quei cornetti mosci e abbandonati dentro un banco inospitale.


giovedì 18 agosto 2011

vacanze campane


Quel letto mi faceva sognare male. Il cuscino di lana dava le vertigini al mio umore falcidiato da tanta indolenza che si respirava nelle case e nelle strade campane. Eppure ho visto facce che conoscevo già da millenni. La mattina facce assassine, poi la sera, in un attimo si scioglievano i sentimenti fino a noi.
Così nel borgo di Acciaroli ho visto il sindaco Vassallo che stava dentro la faccia argentea di Hemingway: e tutti a piangere di Angelo che stava così bene nella sua bella Acciaroli disegnata con amore. Negli occhi del signore che vendeva l’olio buono e offriva la colazione la mattina, tutta l’accoglienza che mi ha colto di sorpresa. Poi l’indolenza ritorna a Eboli, dentro le sue strade di allegro commercio e con tutta quella puzza di campagna alle sue porte; immensa che arriva fino a mare, lasciando tracce senza pietà. La baia di Agropoli si lascia accarezzare dalle ruffiane mani dei marinai da yacht; appena sopra, a difesa della terra e delle trame care a Margherite, un’enorme folla che, come in un pellegrinaggio dell’olfatto, si dirige in cima contenta d’aspettare il proprio turno. Per godere in alto, lievitando insieme alla pizza. Altavilla trafitta per sfuggire al traffico, valeva poco senza la presenza di Enzo.
La costiera appena sfiorata e già assaporata nelle stradine “mi ricordano Gaeta” di Vietri. Poco prima un interno di Cava dei Tirreni che apriva il sipario su abbandoni appena consumati; ma un’intera famiglia era già pronta ad immolare le proprie vacanze estive per difendere i biondi ricci della figlia. E non ci sia salsedine che tenga! Il pallore come difesa e stimmate di un martirio appena accennato vicino alla tangenziale polverosa. Poi cupole che fuggivano con lo sguardo da possibili angosce agostane. E poi non è vero che Napoli è peggiorata. Secondo me è migliorata, e lentamente, come nei racconti della Parrella, sta arrivando in Europa. Ma quella “salita del pianto” mi ha spaventato come non mai: una strada dentro a mure funerarie che salivano e scendevano neppure al luna park, con erbacce alte due metri ai lati. Intanto lo sporco d’immondizia ci obbligava a smentire la frase di riscatto appena pensata. L’insolenza torna a bruciare nella mia testa. Tutta la cenere la lascio cadere sui cumuli di pensieri bloccati: quei sacconi neri che non si riesce mai per bene a nascondere. Come sul Vesuvio, che ai suoi bordi neri brillavano fazzolettini appena usati la sera prima con Rosaria o Vanessa, sul più bello di una vita nervosa e acida di città deserta di mare.
Salerno fatta a fette da stradone pulite e chiare. Piazzette improvvise che offrono prezzi popolari e aria fresca a gruppi altrimenti allo sbando della loro curiosità. E poi viadotti che istigano a voli su porti dell’anima, senza cargo, ma con tanto fango da digerire in storie grigie. Poi Napoli sia all’andata che al ritorno. Con Lorenzo che assapora lentamente il cannolo dentro a Gambrinus, e mentre lo fa, assume una postura alla pulcinella. Jacopo che si eccita nelle stanze decorate di tradizione dentro “la pizzeria più bella del mondo”. Enrica che si appoggia sensuale sul muretto che divide Posillipo dal golfo: e io osservo bene bene per non dimenticare le morbide curve fino al centro. Di Napoli. Che aveva preso il corpo di Enrica, ma solo per quella sera umida e infinita fino a Pozzuoli. Fino alle viscere. Per non tacere più; che la vita ce la prendiamo tutta d’un fiato - una volta per tutte - e non la vogliamo restituire più ai sensi di colpa del diavolo.
Quel fumo di sterpaglia da Cuma a Mondragone segna il passaggio da un inferno, più volte sentito in passato, a quel piacevole scorrere sulla domiziana senza problemi con i bambini sdraiati di dietro. Non ci fa più paura questa strada disgraziata, né ci affascina più il suo odore di riscatto. Tutta questa poesia è rimasta negli amati film napoletani di Martone. Oggi percorro vie tutte mie. Con Antonio sulle spalle lascio che il vento passi per aspettare la calma che un ragionamento sentimentale sa offrire. Non aspetto altro.

domenica 14 agosto 2011

Raccontare stanca





Antonio aveva le idee chiare, io un po’ meno. Ricordo quella volta che mi ha raccontato la storia dei due cugini svedesi. Questi erano rimasti tre giorni da soli sopra un fiordo. Stavano con la tenda. Il fiordo era a malapena segnalato sulle mappe militari. Quel pomeriggio le due famiglie avevano deciso di fare una gita con la loro barca alla volta di un’isola più a sud. I due cugini, oramai adolescenti, e con spirito scandinavo, s’incaponirono a restare là: andate voi, tanto sappiamo cavarcela e poi stasera starete di nuovo fra i piedi, non è vero? E così le due coppie, con altri tre bambini dietro, decisero per la crociera pomeridiana. Un ventaccio nordico improvviso decise la sorte del tragitto e così si ritrovarono a centinaia di miglia dal punto di partenza. E dai ragazzi. La prima notte fu da incubo. I soccorsi cercavano di sfidare le condizioni atmosferiche davvero terribili, ma non era facile raggiungerli. Il giorno seguente i due ragazzi, dopo che erano rimasti abbracciati tutta la notte, riuscirono a organizzarsi e così fecero per gli altri due giorni, fino al ritrovamento. Antonio descriveva proprio bene le emozioni che i due giovani vivevano. Pochi cenni sulla disperazione dei familiari. A lui importava soprattutto la condizione di estrema solitudine dei due ragazzi.
 Insomma, sta di fatto che la notte ho avuto un incubo: io e mio fratello che ci risvegliamo soli nella nostra casa d’infanzia. I nostri genitori scomparsi nel nulla. Nessuno che ci dice come stavano le cose. Il terrore sulle nostre facce allungate della notte. La storia di Antonio era penetrata.
Da quel giorno gli facevo sempre ‘sta domanda: “ma ‘ste storie le inventi tu? Ma le hai scritte da qualche parte?” lui faceva un po’ il misterioso e un po’ il timido. In pratica non dichiarava nulla alla stampa. Altro che Salinger. Questo era proprio corazzato dietro al suo ruolo d’informatico modello. Si usciva pure insieme, alle volte lunghe passeggiate sulla spiaggia di notte. Parlavo soprattutto io, delle mie ansie legate al lavoro. Delle mie delusioni per certi amici negli ultimi anni. Di lei. Invece Antonio parlava o di pettegolezzi leggeri su alcuni amici in comune, oppure all’improvviso, senza neppure annunciarle, raccontava storie. Quando lo faceva potevano prendere anche un’intera serata. Con tanto di descrizioni psicologiche a margine. La sua faccia in quei momenti diventava un foglio increspato su cui scorrevano le parole con fretta di uscire, ma senza inciampare. Si davano la mano una con l’altra come una scolaresca in gita.
                Non riuscivo più a trattenermi e gli ho chiesto: “Ma sei tu quello che pubblica i racconti sul sito della libreria Mondadori?” e lui “Ma si scem’, non mi voglio mischià con quelli, stai fuori strada amico mio”. Insistevo: “Allora hai copiato la storia a quello che si firma Pasqua, la storia è simile a quella che mi hai raccontato tu”. “E l’avrà sentita qua o là, mica le racconto solo a te. E poi che non lo sai che gli scrittori fottono le storie?”. Mi aveva anche un po’ convinto, così non ci ho dato più peso. Poi la sera. Un botto tremendo in quella piazza. Le aiuole si sono ritirate impaurite da tanto dramma; eppure gli alberi, come ombrelloni chiusi nelle sere d’estate al mare. Sono arrivato sul posto circa mezz’ora dal fattaccio. Il suo corpo ancora paralizzava l’intero selciato. Tutto il quartiere restava immobile, ed io ancora di più. Antonio, allora sei tu che pubblichi?
Il giorno dopo il funerale comincio a fare quello che non mi era riuscito di fare per bene prima dell’incidente: capire dove teneva i racconti. Per fortuna avevo il suo PC di fronte al mio, almeno quello che usava a lavoro. La password la conoscevo perché me l’aveva data lui qualche tempo fa; doveva partire per un viaggio in Danimarca, dove sarebbe rimasto circa un mese. Diceva per conoscere meglio la cultura nordica, ma per me e per buona parte degli amici in comune, per una bionda danese conosciuta a Baia Domizia l’estate scorsa. Tant’è, mi sono ritrovato con questa password per emergenze, in pratica per sostituirlo al suo PC in caso di richieste urgenti da parte del capo. Non si sa mai, così mi ha detto prima di partire. Era sempre diligente a lavoro, un impiegato modello e affidabile. Anche se qualche ombra se la portava a spasso per l’Europa. Durante la prima giornata di scavo ho ritrovato solo qualche appunto su resoconti di viaggio, in una cartella denominata parole raccolte. Bah, e le storie dove le ha raccolte? Non era facile tirare fuori le cartelle nascoste.
Quella sera stessa dopo aver passato un’intera nottata con Anna, una nostra amica in comune, che in passato è stata molto intima ad Antonio. Facendole mille domande su di lui ho capito che Antonio aveva fatto del mistero intorno alla sua persona, un’arte.
L’indomani ho speso interamente il mio turno a cercare cartelle nascoste. Niente. Forse sarebbe il caso di recuperare il portatile. Ma come? Oramai il suo monolocale è diventato un monastero per la madre. Da quel giorno si è trasferita là: nel paesino molisano ci torna solo nel fine settimana. Forse anche lei sta scavando qualcosa nella storia del figlio. Potrei con una scusa andarla a trovare, pensavo mentre arrestavo il PC ormai stremato di Antonio.
Arrivo al secondo piano di quel palazzone verde e grigio, e mi ritrovò sulla porta una donnina nera da capo a piedi. Dallo strofinaccio che ha in mano capisco che sta togliendo chissà quale polvere. La casa brilla, Antonio non era certo un disordinato come me, ma una mamma del sud sa come anticiparla la polvere: una sorta di protezione antipolvere che sprizzano i suoi ormoni. Così mi ritrovo seduto con una birra già stappata davanti. “Signora non bevo”. “Ah, non hai sete? allora ti preparo da mangiare. Vuoi una fettina di carne o una pastasciutta?” “No, niente grazie lo stesso. Sono venuto per prendere una cosa che doveva darmi Antonio”. Prima di darmi una risposta, la minuscola signora comincia a singhiozzare silenziosa. Comincio lentamente a girare lo sguardo a trecentosessantagradi, per non incappare nell’effetto domino. “ Fa pure, non ti preoccupà, so che eravate compagni”. Ringrazio per la stima e guardo in giro. Non vedo il portatile. Non resisto: ”Signò, ma il computer?” “Se l’è preso la sorella, dice che lo porta a Milano”. Cazzo, a Milano no. Neanche finisco di disperarmi che noto un foglio sulla scrivania: Corso di scrittura creativa condotto da Antonella Lattanzi. Me lo infilo in tasca. Saluto a dovere la signora e scendo di corsa le scale. Illuminato dalla vetrina del bar mi leggo tutto il testo del volantino. Il corso era già iniziato, quindi Antonio aveva partecipato almeno a tre lezioni. La prossima c’è domani. Mi iscrivo per telefono. Subito. Recupero qualche parola. Una frase. Uno sguardo rivelatore quando dirò che ero un suo amico. Fa niente che in questo periodo sto proprio lontano dalla scrittura, però leggo, e so pure ascoltare.
Il corso costicchia un po’, almeno per quelli come me che a fine mese è tutto un divorare scatolette del discount. Nemmeno si usano i piatti in quei giorni. Vabbè non divaghiamo, in fondo devo frequentare un corso di scrittura che avrà sicuramente regole e ritmi da rispettare.

Mi ritrovo un mercoledì sera piovoso dentro a una libreria lunga e stretta, con tanti libri pronti a farsi sfogliare. Sono teso, devo introdurmi dentro a un gruppo già formato. Lo stesso terrore che ho già provato quando alle elementari ho cominciato dalla seconda, poiché la primina la feci dalle suore. I primi giorni mi nascondevo ovunque: sottoscala e bagni si prestavano bene. Ma qui non ci sono. Vedo persone che parlano tra di loro. Chissà chi è la docente. Chiedo alla libraia, e m’indica di seguire il gruppo che scende rumoroso una scala di ferro. Mi avvio. Arrivato in fondo alla stanza e capisco che il ritrovo ha forma di bunker: un ripostiglio ripulito bene, con lo spazio letteratura per l’infanzia a riempire le pareti; in fondo questi del corso sono i presunti bambini della letteratura italiana. Bah, di primo acchito non direi: l’età media non lascia dubbi. Oddio, c’è qualche faccia fresca, e pure qualcuna simpatica, ma la media la fa la matematica, non le impressioni. La docente è giovane, sembra una scuola capovolta: i giovani che finalmente tengono a bada le presunte velleità della vecchia classe dirigente. Ma Antonio dove si sedeva? e cosa diceva tra queste persone con cartelline rosse e facce in attesa di informazioni preziose? Vabbè, scelgo quella sedia. Il tipo rasato sembra un po’ più accogliente degli altri. Ci provo.
Che serata strana. La docente parlava continuamente di un filo rosso da mantenere. Valutava garbatamente alcuni scritti degli allievi, sottolineando l’importanza di sapere cosa si voglia dire, e dove si vuole arrivare, quando si scrive un racconto. Alla fine hanno accennato alla scomparsa di Antonio - senza scivolare nel patetico - leggendo un suo breve racconto:

Una sera in Danimarca ho pensato ai miei amici in Italia. Poiché sapevo di deluderli ultimamente, per farmi perdonare mi sono guardato tutte le loro foto che avevo sul PC. Per ogni foto concedevo due minuti di osservazione e circa dieci per scrivere impressioni a caldo. Alla fine ho pianto: non avevo le parole giuste per descriverle. Ma ribolliva dentro una voglia di raccontarle.  Questo triste esperimento mi aveva procurato uno squarcio nella mente. Stavo sempre a pensare quello che mi diceva Gianni: dove le hai scritte queste storie che racconti? Per orgoglio non gli dicevo il vero, che non ho mai scritto veramente nulla, raccontavo e basta. Almeno negli ultimi anni, da ragazzo per un periodo mi ero fissato che dovevo scrivere un libro. Avevo già trovato il titolo: I contrasti nell’era della pop art. Poi negli anni tutto era svanito nelle fatiche dei giorni lavorativi, nelle incomprensioni famigliari. Nell’ambientamento lungo e stressante di Roma. Per lei.
In fondo quel ragazzo ha mantenuto un filo teso dentro di me: una terribile necessità di raccontare. Così nel tempo ho fatto il narratore da bar. Dicevo che erano storie lette tanto tempo fa, che romanzavo un po’, e che non mi ricordavo più i titoli, né gli autori. Riuscivo sempre a distrarli da questa bugia con la storia narrata. Ci cascavano, turbati e a volte allegri, nelle storie. Così per lei.
Poi quella sera a Copenhagen con le lacrime che comandavano la scena. Volevo scappare da quel fantoccio zuppo di pianto, e pure qualcosa mi tratteneva. La mattina successiva ho capito il perché. Ero arrivato alla fine. Ripartivo dalla fine per liberarmi del mio orgoglio. Come un pazzo mi sono messo a scrivere racconti, ognuna per una faccia che avevo osservato la notte precedente. Queste storie non le ho più lette. Le ho spedite tutte a mia zia che abita a Napoli. L’unica che davvero mi stima fino in fondo e che ha intuito qualcosa di buono su di me. Ora sono lì. Le ho chiesto di non aprirle per ora, di aspettarmi che un giorno gliele avrei lette io: in una serata tiepida di giugno, quando il profumo dei gelsomini è svanito e lascia lo spazio ai più sobri frutti del pesco. Però prima di leggerli voglio frequentare il corso di scrittura. Magari sciogliermi dentro a un gruppo sconosciuto e raccontare storie col mio nome in basso a sinistra.
Peppe Stamegna primavera 2011

venerdì 12 agosto 2011

amico mio

Sempre a tenere insieme le cose. E guarda dove cazzo sei arrivato!
(pastorale americana)

....infatti oggi becco un vecchio amico e lo abbraccio come non si fa più:forte forte e con gli occhi luminosi. Avrei voluto vedermi; avrei voluto essere io l'amico.

giovedì 11 agosto 2011

Odori e umori del vico (appena riscritto, ma poco poco)


Odori e umori del vico

Verso le dieci del mattino mio padre tornava dalla rezza, tipo di pesca che si praticava sulla spiaggia, dove due file di decine di braccia tiravano le reti che due pescatori avevano gettato al largo poco prima. Quel giorno avevo corrotto mia madre per non andare a scuola. Di solito bastava che le dicessi di avere mal di testa o di pancia, che la sua faccia si addolciva di un’espressione complice seppur alimentata da una debolezza di carattere. Insomma, non riusciva a prendere la questione troppo sul serio, oggi capisco che mia madre soffriva già all'epoca, e provava a difendersi.
Dal letto, da dove seguivo tutto il dibattito che si sviluppava nel vico tra le varie comari, il vociare in dialetto stretto mi faceva capire dell’arrivo di mio padre. Un salto ed ero già giù in cucina accovacciato all’angolo del tavolo a fissare le belle sarde ancora vive che brillavano all’interno delle buste di plastica blu. Ancora per poco, ché nel giro di una mezz’ora sarebbero diventate cibo per gran parte degli abitanti del vico. E non solo. Spesso mia zia Civitina compariva sulla porta ansimante e non faceva in tempo a chiedere “quant’ na’ purtat”? che mia madre le aveva già riempito una busta piena piena di sarde. E poi altri parenti o amici sparsi per il quartiere, accorsi come piccioni. Una gioia ‘sta venuta di papà, pensavo con il mal di testa alle spalle.
Verso mezzogiorno mia madre cominciava ad accendere la fornacella: una specie di barbecue alto quaranta centimetri e largo trenta. La carbonella era poca, ma lei la faceva bastare, era brava a risparmiare mamma, così papà era ancora più contento. Intanto le prime sarde s’immolavano per la nostra fame che a quest’ora pulsava forte forte nello stomaco. Io seguivo il dibattito che nel frattempo si era spostato all’interno dei venticinque pollici ancora in bianco e nero.
“Scign”, annunciava dalle scale mia madre a suo marito che riposava al “tavolato”, così era chiamato il nostro primo piano. Chissà perché, forse per il fatto che un tempo nelle case il piano rialzato era in legno. Più che la voce della moglie, dopo che si era svegliato alle tre di notte, credo che a farlo alzare dal desiderato letto fosse il profumo del pesce appena arrostito.
Da lì a qualche anno, dopo aver abbandonato la scuola, anch’io mi sarei svegliato a quell’ora, e insieme a papà si andava a chiamare un altro pescatore qualche vico più avanti dal nostro.  Si chiamava Leonardo. Era un uomo alto poco più di un metro e mezzo e pure con un po’ di gobba e tanti capelli densi di brillantina già alle quattro della mattina, ricordava, almeno nella faccia, Totò. Nella sua casa il profumo del caffè appena fatto si mischiava con antiche puzze, pesce soprattutto, ma anche muffe e tante altre che ricordo ma fatico a trascrivere. Lui, a differenza di mio padre che pescava perché in cassa-integrazione, lo faceva come secondo lavoro, anche se il primo era sempre nell’ambito peschereccio: vendeva il pesce in via Indipendenza nel pomeriggio, quando le signore si muovevano inquiete alla ricerca del cibo migliore per le loro famiglie.
Insieme tutti e tre proseguivamo a piedi per le buie vie di Gaeta fino alla spiaggia di Serapo, dove già trovavamo un fuoco acceso e alcuni uomini insonnoliti intorno. Tutto intorno era silenzio naturale di paese che fa i conti con i propri incubi e sogni, che a volte diventano la stessa cosa in certi ambienti domestici.
Quella mattina le sarde erano davvero speciali, l’odore conquistava tutti, me soprattutto, che le mangiavo come antipasto, ma in realtà non riuscivo a mangiare nient'altro. Mia madre a questo punto si era arrabbiata, e inveiva contro di me facendo il conto rimasto in sospeso dalla mattina. O forse stanca dalle fatiche dell’arrostita, ma soprattutto perché non ne era rimasta neanche una, di sarda, che così tanto aveva desiderato durante la cottura. Mia sorella e mio fratello si erano contenuti; mio padre no, aveva una fame che si portava dalla sera prima, ed io che ingordo ne avevo buttate giù una trentina: ero quello che si meritava di più la ramanzina. Cercavo di spostare l’attenzione sulle notizie del tiggì, ma niente, mamma voleva arrabbiarsi per bene: voleva punirmi. Così, visto che per il libretto delle giustificazioni stavo male, decido di rifugiarmi nel letto a fare il convalescente.
Più tardi mamma aveva deciso di farmi passare tutto, infatti, con la complicità del forno e dei polipi freschi, insieme alla farina lievito sale e acqua, costringeva me e il mio olfatto a rivedere il piano: tornavo volentieri a scuola l’indomani in cambio di un paio di fette di tiella coi polipetti. Viva la scuola!

Odori e umori del vico

Verso le dieci del mattino mio padre tornava dalla rezza, tipo di pesca che si praticava sulla spiaggia, dove due file di decine di braccia tiravano le reti che due pescatori avevano gettato al largo poco prima. Quel giorno avevo corrotto mia madre per non andare a scuola. Di solito bastava che le dicessi di avere mal di testa o di pancia, che la sua faccia si addolciva di un’espressione complice seppur alimentata da una debolezza di carattere. Insomma, non riusciva a prendere la questione troppo sul serio, oggi capisco che mia madre soffriva già all'epoca, e provava a difendersi. 
Dal letto, da dove seguivo tutto il dibattito che si sviluppava nel vico tra le varie comari, il vociare in dialetto stretto mi faceva capire dell’arrivo di mio padre. Un salto ed ero già giù in cucina accovacciato all’angolo del tavolo a fissare le belle sarde ancora vive che brillavano all’interno delle buste di plastica blu. Ancora per poco, ché nel giro di una mezz’ora sarebbero diventate cibo per gran parte degli abitanti del vico. E non solo. Spesso mia zia Civitina compariva sulla porta ansimante e non faceva in tempo a chiedere “quant’ na’ purtat”? che mia madre le aveva già riempito una busta piena piena di sarde. E poi altri parenti o amici sparsi per il quartiere, accorsi come piccioni. Una gioia ‘sta venuta di papà, pensavo con il mal di testa alle spalle.
Verso mezzogiorno mia madre cominciava ad accendere la fornacella: una specie di barbecue alto quaranta centimetri e largo trenta. La carbonella era poca, ma lei la faceva bastare, era brava a risparmiare mamma, così papà era ancora più contento. Intanto le prime sarde s’immolavano per la nostra fame che a quest’ora pulsava forte forte nello stomaco. Io seguivo il dibattito che nel frattempo si era spostato all’interno dei venticinque pollici ancora in bianco e nero.
“Scign”, annunciava dalle scale mia madre a suo marito che riposava al “tavolato”, così era chiamato il nostro primo piano. Chissà perché, forse per il fatto che un tempo nelle case il piano rialzato era in legno. Più che la voce della moglie, dopo che si era svegliato alle tre di notte, credo che a farlo alzare dal desiderato letto fosse il profumo del pesce appena arrostito. 
Da lì a qualche anno, dopo aver abbandonato la scuola, anch’io mi sarei svegliato a quell’ora, e insieme a papà si andava a chiamare un altro pescatore qualche vico più avanti dal nostro.  Si chiamava Leonardo. Era un uomo alto poco più di un metro e mezzo e pure con un po’ di gobba e tanti capelli densi di brillantina già alle quattro della mattina, ricordava, almeno nella faccia, Totò. Nella sua casa il profumo del caffè appena fatto si mischiava con antiche puzze, pesce soprattutto, ma anche muffe e tante altre che ricordo ma fatico a trascrivere. Lui, a differenza di mio padre che pescava perché in cassa-integrazione, lo faceva come secondo lavoro, anche se il primo era sempre nell’ambito peschereccio: vendeva il pesce in via Indipendenza nel pomeriggio, quando le signore si muovevano inquiete alla ricerca del cibo migliore per le loro famiglie.
Insieme tutti e tre proseguivamo a piedi per le buie vie di Gaeta fino alla spiaggia di Serapo, dove già trovavamo un fuoco acceso e alcuni uomini insonnoliti intorno. Tutto intorno era silenzio naturale di paese che fa i conti con i propri incubi e sogni, che a volte diventano la stessa cosa in certi ambienti domestici.
Quella mattina le sarde erano davvero speciali, l’odore conquistava tutti, me soprattutto, che le mangiavo come antipasto, ma in realtà non riuscivo a mangiare nient'altro. Mia madre a questo punto si era arrabbiata, e inveiva contro di me facendo il conto rimasto in sospeso dalla mattina. O forse stanca dalle fatiche dell’arrostita, ma soprattutto perché non ne era rimasta neanche una, di sarda, che così tanto aveva desiderato durante la cottura. Mia sorella e mio fratello si erano contenuti; mio padre no, aveva una fame che si portava dalla sera prima, ed io che ingordo ne avevo buttate giù una trentina: ero quello che si meritava di più la ramanzina. Cercavo di spostare l’attenzione sulle notizie del tiggì, ma niente, mamma voleva arrabbiarsi per bene: voleva punirmi. Così, visto che per il libretto delle giustificazioni stavo male, decido di rifugiarmi nel letto a fare il convalescente.
Più tardi mamma aveva deciso di farmi passare tutto, infatti, con la complicità del forno e dei polipi freschi, insieme alla farina lievito sale e acqua, costringeva me e il mio olfatto a rivedere il piano: tornavo volentieri a scuola l’indomani in cambio di un paio di fette di tiella coi polipetti. Viva la scuola!

Scritto nel 2005, ma rivisto poco poco oggi.