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sabato 29 gennaio 2011

Sole dietro le nuvole basse


Sarà per le nuvole basse. Sarà per l’umido che mina le ossa; ma oggi, in questa mattina lattiginosa di fine gennaio, sento di mettere sul tavolo tutti i buoni propositi che la mia storia merita.
Niente di nuovo, solo un rimasticare quella spensieratezza dell’infanzia che così tante volte mi ha graziato. E poi voglio ridere, carezzare e tenere a me le belle persone: figli, moglie, Madre, amici. Nessuno escluso. Pure la gatta grigia e fuggevole.
A volte è necessario un disarmo del cuore. Tutto scivola sopra la palla infuocata: i nostri ricordi come cenere acida. Cosa importa tanto ogni cosa cammina con le proprie gambe. Non posso controllare le vite degli altri. Di mia madre non di certo: la sua solitaria peregrinazione merita soprattutto uno sguardo accompagnatore. Il resto è affidato ai fantasmi buoni che aleggiano nel paese d’inverno, davanti al lungomare, appollaiati sulle palme divorate dai punteruoli assassini.
Nessuno parla dei delitti, ognuno chiude gli scuri al calar del sole. Da quel momento in poi, e per tutta la notte, tutti sono sospetti. Me compreso.
Insomma, sto per andare a fare una corsa leggera sulle strade incompiute del mio quartiere. Al termine so che avrò una smorfia felice sul viso. Per oggi può bastare.

domenica 23 gennaio 2011

le cose più interessanti che abbia letto oggi....non ne sapevo nulla. O quasi.



46. Esorcizzare fa bene. Cauterizzare, bruciare per guarire. E' come potare gli alberi. La mia arte è questo. Lo so fare bene.

47. Non è un'immagine che cerco. Non è un'idea. E' un'emozione che si vuole ricreare, l'emozione di volere, di dare e di distruggere.

Louise Bourgeois

sabato 22 gennaio 2011

tutta per tia andrè


Una stanza luminosa: che si trova dentro a un corridoio battuto tutti i giorni da gambe nervose. Due giovani uomini dentro. Da fuori si sentono risate esagerate. Fuori i quaranta gradi romani sciolgono pure le catene più nere e arrugginite delle loro vite. Intorno: altre stanze con pazienti persone sulle sedie scure: di fronte quasi sempre un medico, a volte un infermiere. A zig e zag tra le stanze le storie poi rimbalzano sulle pareti, e alcune si frantumano a terra. Davanti ai piedi di A., lui le guarda e raccoglie quelle più aguzze. Ci torna il giorno dopo per recuperarne altre. E l’indomani ancora va e porta con sé un  raccoglitore: prova a buttarci dentro quelle minuscole, altrimenti aspirate dall’indomabile addetta alle pulizie. Ché nei due giorni precedenti era in ferie.
Una volta a casa A. si accorge che i pulviscoli che si è portato dietro sono più luminosi che visibili. Allora si lascia andare alla visione. Nel frattempo si beve una birra fredda. Si addormenta. Il sogno, che lo riporta al risveglio brusco e non desiderato, avviene in una stanza: senza mobili, una stampa impressionista sulla parete rosa. Un letto e poco più in là una finestra che butta dentro alla scena una  violenta luce estiva. Sul letto c’è una ragazza magra coperta a metà da un lenzuolo bianco. Si agita nel sonno, e di tanto in tanto urla delle parole sconosciute.  Intorno, uomini in ginocchio. Un bambino davanti alla finestra si prende tutta la luce. Dà le spalle al letto. Accenna un pianto. Nessuno lo sente. Si alza la tenda ocra, spinta da un libeccio inaspettato. Dalla strada sale un odore magrebino che cambia il colore della mattina.
A questo punto entro, allungo il passo, e mi avvicino subito al bambino: lo abbraccio alle spalle. Qualcuno chiude la porta, e non sono stato io. La via d’uscita è restare nella stanza, e provare a ridere a crepapelle e tentare di cambiar l’umore all’ambiente. Ordinare una pizza. Stappare un chianti. Chiudere la tenda. Mollare le redini.
Il bambino sta per raccontarci la storia.

venerdì 21 gennaio 2011

MOLTHENI - Vita rubina


una malinconica fissa. pardon, solitari amici di 'sto claustrofobico blogghe..

mercoledì 19 gennaio 2011

che bellezza

foto di mimmo jodice

questa immagine sta dentro a tante cose che ho visto, fatto, vissuto insomma, da quando ero piccolo(ero l'immagine) ad oggi. in molti racconti che ho sentito e letto. in tante facce adorate e odiate. nel tragico che sfotte al folklore, e viceversa.
nella mia testa questa immagine.
anche quando telefonai a Mimmo Jodice, e una gentile signora accoglieva la mia richiesta di incontrare il maestro, questa foto mi stava davanti.
anche stamattina, e mi spinge verso un gorgo da cui dovrei tornare salvo.
ci sto. tanto la risalita mi fa aggrappare a braccia amiche e sicure. tanto non c'è scampo, per quelli come me è l'unica soluzione di redenzione.
so oramai che la risata per eccellenza sta nel fondo delle viscere. e già sento il rimbombo che squassa tutto quanto.
che bellezza ridere di gusto.

Afterhours - Quello Che Non C'è

lunedì 17 gennaio 2011

vinco io, a tavolino.

Non sono quello che rappresenta la mia faccia. A volte sì, e allora è un’epifania ritrovare di fronte sorrisi e parole dolci. Ma solo allora.
In un tempo che sembrava tremendo, ma che in fondo era solo burrasca di giovinezza, c’erano dei giorni che non mi guardavo neppure allo specchio. E i capelli scendevano come rizomi infestanti sulla mia pelle.
Oggi sono aperto come due ali di farfalla in una mattina fredda d’aprile.
Aspetto con generosa pazienza il mio turno.
Sento un enorme fastidio, già gravido di presagi oscuri, intorno al mio tempo. Io resto qui, seduto su questa panchina umida ma accogliente. In fondo, non ho mai chiesto troppo. Sbilenco poi ci so stare, e attraverso uno sguardo da uomo tranquillo, lascio intendere un fare pacioso e per niente collerico. Ma dentro a volte le fiamme sono spente da anni e anni di storie finite male, che diventano umide di lamento e bagnano tutto. Fuori neanche una lacrima, solo sorrisi un po’ tonti. Di creanza.
Va bene così, lascio agli altri la ferocia al sapore di napalm, che gelidi spalmano sul terreno altrui. Sui pensieri degli altri. E la merda a far da corollario.
Mi obbligo a non obbedire al male. A questo male superficiale. Mi accontento del groviglio malefico con cui faccio i conti ogni notte. Poi le furibonde lotte di mantelli inceneriti e maschere incancrenite. Lotta impari che mi schiaccia al muro del letto. Un urlo al buio. Poi l’alba spazza via le tracce. Le rughe della mattina, increspature di sorrisi abbozzati, pareggiano i conti con la storia. E il giorno è un’attesa di redenzione, aspettando la notte della perdizione.
Ad oggi vinco 1-0 a tavolino. Del pc.

lungomare

Questo lungomare è proprio bello. Inizio a camminare con passo veloce così da attraversare le cose di fretta, ma so vedere tutto lo stesso: intanto un bambino che si avvicina al mare. Poi una mamma, con i capelli scombinati dal vento, che sussurra al figlio di fare piano. Già sono dietro la mia visuale quando mi accorgo di un uomo, basso e tarchiato, che osserva da lontano la scena. Sembra distaccato anche se un po’ interessato. Un ratto mi taglia la strada. Anche di giorno questi enormi mostri urbani fanno il loro dovere. In allerta per eventuali altri suoi compagni di rosicchiamento, cammino al centro del marciapiede. Le macchine lasciano un silenzioso rumore di fondo per le mie orecchie.
Ora una ragazza si fa rincorrere da un ragazzo muscoloso; la sua faccia è da innamorato fresco e voglioso. Forse si sono appena conosciuti. Sa che da lì a poco l’avrà tra le braccia e ogni malinconia sarà alle spalle: in mare, tra i cefali famelici. Ancora il battello affondato è rimasto lì da quella devastante mareggiata del ‘75. Nero, ancora imponente nonostante una buona metà stia sottacqua. Intorno pescatori che a gambe penzoloni aspettano Moby Dick. La brezza non abbassa molto la temperatura, ma riesce a darmi una sensazione di aiuto. Quello che servirebbe all’anziano signore col bastone e una bocca spalancata dalla fatica. Davvero vecchio cerca ancora di raggiungere i suoi amici. Non voglio aiutarlo, non posso farlo. Meglio che capisca che il suo tempo è agli sgoccioli. Questo duro pensiero irrompe nella mia mente e mi paralizza. Un miscuglio di pensieri e idee che, come pesci nevrotici di un piccolo acquario domestico, sbattono contro le pareti dure della coscienza. Qualcuno esce, qualcosa si rompe, resta il docile silenzio dei pensieri vecchi.
Ecco ora intravedo la donna delle giostre. Il suo enorme seno è in parte poggiato sul banco di metallo, dove passano gettoni e mani. Quelle dei papà indugiano un po’ davanti a quelle belle tette per metà scoperte al mondo. Si dice che la sera s’intrattenga con gli uomini nel camper di servizio. Forse c’è pure quel vecchio di prima: ecco la sua cocciutaggine nell’andar in giro oscenamente a quell’età. Forse c’è anche mio padre tra quegli uomini in attesa di un piacere a buon mercato, nel retro del luna park. L’unica cosa certa è che ci sono anch’io col pensiero, schiacciato da un caldo insopportabile. Mio padre non lo trovo seduto sulla balaustra mezza arrugginita del lungomare che da sul porticciolo: una parte della banchina è dominata da yacht e catamarani da ricchi. L’altra banchina è zeppa di gozzi e piccole imbarcazioni da pesca. Il mare qui puzza di benzina e il suo colore è grigio. Non c’è mio padre poiché è morto. Da tempo. In una gelida mattina di settembre. Senza vento, solo una scia di tristezza che apriva la strada davanti alla mia macchina. Che veloce andava a riprendersi la colpa. E le mie mani scoprivano un lenzuolo bianco ospedale: un volto di pietra, slavato e piuttosto placido, poggiava senza attesa. Sì, è lui. Dico al medico di guardia. Era lui, penso in silenzio colposo.
Non c’è nessuno appollaiato come avvoltoio, come un tempo. Pescatoti mischiati a operai, contadini e capitani di lungo corso in pensione. Tutti in fila a parlare di mare e di terra. Di donne e di figli. Pomeriggi lunghissimi d’estate che devono essere riempiti da parole e gesti quotidiani. Da sveltine con la tettona di prima. Da trattative con i figli per non cedere troppi soldi per giostre o gelati. A volte cedevano per entrambi le richieste, se l’umore era buono e la pesca del mattino era stata generosa. Le mogli a casa a preparare cene e figli dopo il riposo sacro della controra. Da questo lato del lungomare ci sono anche degli alberi non proprio di mare: platani, e qualche albero da frutto messo lì dai marinai. La misera fontana che disegna l’aiuola è sempre lì. Un getto debole d’acqua le dà un senso.

mercoledì 12 gennaio 2011

i maestri non si scordano mai?

E facevo le foto. Uscivo da casa con le fiamme davanti agli occhi: illuminavano la scena, e poi lo scatto. Mi divertivo, non c’è dubbio. Costruivo storie spinto dalle lezioni, che avevo nella testa, dei miei maestri. Del mio maestro. Una furia di conoscere il mondo intorno. Una febbre che mi spingeva a fare.
Dove sono le foto di mio padre? Lorenzo me le chiedeva, e io non sapevo rispondere. Perché? Questo torto non se lo meritava. L’ho dimenticato del tutto. Non ne parlo mai. Poco fa, preso da una descrizione sul cielo, e arrivando a parlare di quando bambino stavo spesso su di una paranza a giocare, all’improvviso Lorenzo mi ha detto: vorrei avere un nonno! Allora io di corsa l’ho portato a vedere le foto che ho stampato tanti anni fa. In bianco e nero. Quelle che Luciano mi diceva di stampare. Soprattutto quelle. E le altre dove sono? Sui negativi, sicuramente. Eppure ricordavo di averne stampate molte di più. A parte quelle donate alle persone fotografate, le altre che fine hanno fatto? Sono scappate verso padroni più attenti. In fondo, le ho quasi abbandonate. Per tanto tempo le consideravo portatrici di maledizioni varie. Soprattutto stavano lì a giudicare i miei passi falsi in giro. Non mi perdonavano di averle relegate al passato. Ma come, noi ti abbiamo aiutato a crearti un’identità, e tu cosa fai: ci abbandoni nei sottoscala delle case che hai abitato? Così pareva che sussurrassero mentre le mostravo a Lorenzo. Mi disperava l’idea di non aver stampato abbastanza foto di mio padre. Eppure gliene ho fatte. Una volta addirittura un intero servizio durante una notte e una mattina “a tirà la rezz”. Stavamo sulla spiaggia di Serapo, era inverno, il fuoco dei pescatori a ridosso del lido, la barca appena partita per il largo, e io in compagnia dei puzzolenti pescatori ad aspettare di cominciare a tirare la rezza. Una volta sono pure andato in barca per fotografare quella fase. Ma la sensibilità non era sufficiente per farmi imprimere le immagini senza usare il flash.
Così ora aspetto di vedere le foto di Luciano. Vederle scorrere davanti agli occhi - senza più le fiamme di una volta - e pensare a quelle di mio padre. Che non trovo più. In fondo un padre ho sempre cercato. Un maestro. Degli occhi cui affidare le mie paure e i miei sogni; anche solo per ricavarne bellezza. Quella che avevo in tasca in quei giorni di Firenze. Ricordo con piacere quando si stava dentro a quello studio – molti bei libri sugli scaffali - con quel tavolo lungo in fondo: intorno noi ad ascoltare parole che sapevano di sogno e verità.
Un ghigno di Luciano aveva la forza di allontanarti anni luce, così come un suo sguardo dolce sapeva recuperare la luce e gli anni persi a girare a vuoto. Ognuno nel proprio paese di provenienza. Ognuno di noi che aspettava quelle parole. In quegli anni cruciali le nostre storie si avvicinavano. Si sfioravano per poi bloccarsi una seconda volta. Sì, siamo rimasti bloccati davanti allo straripare settimanale del corso di Luciano. Così per me.
Ma all’alba da un treno che mi lasciava alla stazione senza saluto, scendevo dalla mia allucinata visione d’immagini - recuperate a Gaeta - e mi accomodavo davanti a un tavolo reale. E robusto. Dove Luciano Ricci avvolgeva tutti noi e disegnava facce e luoghi con le sue parole. Poi le nostre stampe sparigliate, compiti della settimana, apparecchiavano il nostro presente.



Poi la crisi mi ha piombato ogni volontà di fotografare e mi ha fatto voltare le spalle a quei giorni passati. Oggi non più, poiché sento che sia giunto il tempo di stringere la mano al mio passato. E vedere negli occhi di mio padre una scintilla di ricordo, che avvicina il suo mondo al mio: poi la sera ognuno per la sua strada, dopo aver mangiato magari pesce appena pescato. Dopo aver sorriso uno negli occhi dell’altro.
Arrivare a stringere tutto il tempo del corso di fotografia di Luciano come se fosse una lezione ancora aperta per tutti noi. I migliori consigli ricevuti: l’ostinazione del credere alle proprie ossessioni, per poi liberarsene usando più bellezza possibile. E poi di tenere a bada i nostri limiti, attraverso il quotidiano sforzo a varcarli con piccoli e significativi passi in avanti.
Di notte o all’alba, basta che si faccia al meglio.

martedì 11 gennaio 2011

di qualche tempo fa...dopo un lieve bucato.

Si stava tutti lungo il pergolato d’uva pizzutello. Si pranzava lì sotto, al riparo dal sole cocente di agosto. A me pareva lunghissimo ‘sto pergolato, e quando poi ci sono tornato da adulto mi sono accorto invece che era poco più lungo del mio attuale minuscolo giardinetto. Ma allora lo vedevo infinito; a volte eravamo anche una ventina a mangiarci sotto. Tutti stretti; zio Mamuccio in canottiera con la sua abbronzatura esagerata. Zì Giannin al centro della tavola che dirigeva gli umori. Zia civitina sempre a fare la spola tra la cucinetta e la pergola che attraversava con pietanze prelibate tra le braccia. Papà e mamma come sempre un po’ defilati nel loro fare timido e impacciato. E zi Santino, che viveva a Napoli, che quando veniva portava cocomeri giganti o vassoi con decine di gustose pastarelle. Io tra loro godevo di un tempo immobile e carico di fatti che mi costringevano ad una allerta emotiva.
Spesso c’erano ospiti a tavola con noi, altri parenti o amici di mio zio. Una volta ricordo di una bambina di Milano, era bellissima, con dei capelli lunghissimi e neri. Gaia il suo nome? non ricordo bene… Cercavo di sedurla ai vari giochi che proponevo insieme al mio amico Giacomo. Credo si sia avvicinata al massimo a tre metri da noi: ma per me era già un successone. Dopo quel giorno felice l’ho sognata per tutta l’estate e quella campagna era il nostro paradiso, dove io raccoglievo i frutti del mio orto per donarglieli…
Poi, sempre sotto al pergolato, quante risate alla fine del pranzo quando zi Giannin partiva con i suoi racconti grotteschi di fatti accaduti a lui, e solo a lui potevano accadere, con l’aiuto di spalle occasionali, che gli facevano volentieri da sponda comica alle sue battute. Così oggi anch’io cerco di fare, e così facendo cerco di mantenere viva la tradizione orale - e comica - della famiglia.

lunedì 10 gennaio 2011

notte paterna

La mia ignoranza fa impallidire, anche in questa serata tiepida di gennaio, la mia coscienza, che sta aggrappata come un koala a sua sorella onestà.
Intanto la mia testa, con tutti i suoi pensieri brillanti, poggia sopra le nuvole della vecchia speranza.
E stiamo solo a lunedì.

E mi viene in mente una frase che diceva mio padre dentro al letto, poco prima di sprofondare nel suo sonno da operaio: chiov’ chiov’ chiov’, s’addcrian’ chi fann l’ove.
Papà ti ho perdonato. Di esser andato via in una gelida notte di settembre. Senza neppure raccontarmi l’ultima storia.
Vabbè, rimedio raccontandone una in più ai miei figli.
Dopo i quaranta si cerca sempre un pareggio.
E la mattina si vorrebbe sempre il cielo sereno: le ossa hanno bisogno di cura.
Questa nebulosa stanca chiude una vecchia ferita, e così facendo lascia cadere l’ovatta del mio tempo sulla terra umida.
Riassunto: certe volte sarebbe meglio non scrivere, poiché l’onestà ti spinge verso il niente del niente.

venerdì 7 gennaio 2011

luci di Carver

Non mi sono mai fatto abbagliare dall’esotismo di certe popolazioni; e neppure affascinare da certe tradizioni popolari che d’improvviso, anche tra di noi, anche nella testa di persone razionali e occidentali, diventano serie e pretendono di gettare nell’ombra anche i nostri pronti ragionamenti del caso.
Insomma io credo nelle storie degli uomini, nei loro risvolti psicologici, nelle loro sbandate tragiche. Ma anche nelle loro illuminanti redenzioni, che passeggiano accanto a loro magari per mesi, come cagnolini mansueti, poi, d’un tratto gli si parano davanti e tutto non è più come prima.
Così nei racconti di Carver, dove le persone riflettono spesso sulla propria storia.
Quasi sempre i suoi racconti sono dense di fatti e pensieri che riguardano il passato: il presente è il centro della riflessione. Allora tutto appare allo sbando, ogni gesto diventa precario e rischioso. Come dovrebbe essere la condizione psichica di ogni individuo davanti al cambiamento. In “Menudo”, Raymond Carver fa pensare al protagonista tutta una serie di cose successe in passato: legate perlopiù ad abbandoni. Nel presente sta in una situazione di crisi coniugale, e la sua amante dirimpettaia sta vivendo la settimana di ultimatum del marito, nella sua casa. Un intreccio che potrebbe mostrarci particolari piccanti, morbosi dei fatti. Invece C. fa soltanto stare al presente il suo personaggio tra una rastrellata di foglie secche e passeggiate insonni. Ma la forza del racconto credo stia nel far comparire sulla scena narrante ricordi significativi che vanno a scontrarsi con l’attualità: così il narrare prende forma attraverso fatti veri e fondamentali per delineare un autentico profilo del protagonista; inoltre permette al lettore di non adagiarsi dentro ad una crisi coniugale tout court, no, costringe a vedere il retro, lo sgabuzzino dei ricordi disordinati. Compare l’ex moglie con tutto il suo carico di malessere, deviato verso improbabili sette moderne; la madre che, poco prima di morire, gli aveva chiesto una radiosveglia. Lui non la comprò per questioni di principio, poi, davanti al suo corpo nell’obitorio, scoppia a piangere alla vista del contenuto della sua borsa con la misera spesa.
Poi ancora altri dettagli che non sto qui a dire ma che insieme a tutto il resto vanno a formare con delicatezza, e spietato realismo al contempo, un quadro di un mondo interiore in agguato - e braccato dai rimorsi - dalle insensatezze che il quotidiano ci impone, in maniera implacabile, come il marito dell’amante che dell’ultimatum, di riflettere incessantemente sul nostro destino. Per farci arrivare a dichiarare che il destino, dopo gli ufo, è da sempre tra le più bizzarre delle speculazioni che le persone possano permettersi. Anche se, senza esotismi di sorta, inciampare sul proprio destino potrebbe diventare una chiara via d’uscita dallo stesso…

mercoledì 5 gennaio 2011

Armida dentro di me

L’Armida, uno dei personaggi di “Canale Mussolini”, è davvero una donna che porta in grembo tutta una storia. Una bastarda illusione che il sentimento vinca sulla ragione. Non importa il risultato della sfida, poiché Lei riduce ogni diffidenza e spiega ogni mistero.
Le ultime pagine di questo libro illuminano un periodo storico alquanto buio e desolato. Almeno per quelli come noi sempre a diffidare ogni cosa che non rappresenti il ’68, il ’77, Pasolini e tutta la corazzata ideologica che ha farcito noi uomini bambini degli anni zero.
Invece la testa superba del Pennacchi scompiglia il mazzo e rende tutto possibile: ognuno a rifare i conti con la propria storia, niente più alibi.
Solo l’abbaglio della bellezza potrà sbriciolare il senso delle cose e ricreare un presente dignitoso.
Almeno per me, oggi. Dopo un’intensa lavatrice dei miei pensieri più neri.

Elettrojoyce - Balena

il dolce inganno delle strade romane

Camminavo su e giù per via Nazionale. Sapevo cosa cercavo, ma non volevo ammetterlo. Almeno non allora. Le librerie urlavano la loro attrattiva su di me. La bella modella nel suo portamento regale posava seduta al tavolino di piazza della Repubblica, solo per me. La mia faccia riflessa sul blindato della polizia spariva in un attimo, mentre era attraversata da un pullman su due piani.

La letteratura italiana contemporanea poggiava incustodita sugli scaffali di legno color pino: nessun libro voleva entrare nella mia tasca.

Volevo vedere la sua faccia malinconica e persa. Volevo scappare dalla mia faccia triste e correre come da bambino su via XX Settembre; aspettare una contro risposta - solo dopo aver evitato le guardie alle istituzioni - e ricevere un abbraccio che fosse anche un placcaggio. Due braccia complici di due begli occhi neri che prendano in consegna il mio corpo decrepito dal troppo pensare, dal troppo correre verso il nulla delle strade romane. Da sempre queste strade fintamente mi accolgono. M’illudo sempre, poi una volta in auto o in treno, precipito in una malinconia che è pari solo a quella di Baudelaire, con tutto lo Spleen di Parigi. Che io credo di intuire ma come al solito resto davanti alla superficie delle copertine più belle dei libri che ho amato, e poi abbandonato in mani e cuori più attenti dei miei.

Inutile scacciare le velleità: per loro natura ritornano a volteggiare come corvi impazziti sopra la mia testa, in un mattino afoso di Luglio, poco prima di precipitare nel giorno più duro della mia storia.

martedì 4 gennaio 2011

le storie di domani

In questa fotografia a colori poggiata sul comodino c’è un momento di assoluta gioia. Una donna che si piega indietro per il ridere sfrenato. Il suo uomo che cerca di avvicinarsi, e sta per cingerla. Forse dopo lo scatto lo farà. Di certo faranno l’amore, magari da lì a poco. O forse la sera, una volta accompagnati gli amici alla porta, dopo una serata a base di pesce e risate, solo allora arriveranno al culmine del piacere. E prendersi sarebbe solo un particolare dell’intera giornata giocosa. Rilassante.
Il vino bianco ambiva a concorrere, in fatto di leggerezza, con le storie raccontate da Paolo, ricche di sue peripezie sempre un po’ romanzate, questo per alimentare l’euforia in ascesa sull’intera stanza. E poi le allusioni un po’ sconce di Alice, che fa traballare un po’ l’armonia del gruppo. Scompiglia qualche faccia nell’ilare padronanza del momento. Ma dura poco, ogni sollievo è dettato da una fottuta voglia di stare bene. Tra amici. Tra coppie. Questo disegnava un anticipo delle loro future storie. Così pensavano quasi all’unisono dei loro sentimenti, almeno di quelli più vicini alla soglia dei loro desideri. Un lago di piacere da nuotare. Nessun rischio d’affogare, nessun terrore da immaginare. Un cielo terso e celeste copriva la scena, di là dal soggiorno vetrato. Finiva un mondo, quello dell’adolescenza, e cominciava quello della giovinezza adulta.
Ognuno ricordava il profumo dell’amico. Nessuno dimenticava i compleanni degli altri del gruppo.

Una mattina Gianni si sveglia nel letto di Silvia. Sono stati bene insieme, una notte di passione selvaggia. Il caffè lì riporta dentro la loro realtà, squilla il telefono: è Chiara che cerca Gianni: stronzo, dove sei? Gianni dopo vari tentennamenti cede e confessa l’accaduto.

La mattina del 10 ottobre fa ancora caldo a Roma, mai quanto dentro la testa di Gianni che barcolla in Via Panisperna, pronto alla risalita del secondo tronchetto di strada. I Prunus sfavillano nel loro acceso colore e pare stiano lì a prendere in giro l’andatura sbilenca di Gianni, ma lui non ci pensa e piuttosto cerca di percorrere la salita senza sbandare. Un motorino sale sul marciapiede e fa la gimcana dietro di lui: cerca un varco, che lui gli offre. Sopra lo scooter c’è una donna dai lunghi capelli biondi stipati nel casco. A lui importa poco. Ne segue la traiettoria, ma dentro i suoi occhi c’è il seno enorme di Silvia. Non sparivano questi seni e allora non restava che sfiorarli col pensiero e scacciare la faccia cattiva di Chiara col telefono in mano nell’atto di scagliare un attacco feroce. Che c’è stato, ma non pareva aver lasciato traccia nella mente di Gianni. Invece solo un intenso profumo di colostro serpeggia nella sua mente: e di nuovo il seno che rimbalzava tra le sue mani. Lo riportava alla notte del mondo. Del suo.
Una volta in cima alla strada si piega sulle gambe e accarezza una gatta enorme dal pelo vellutato. L’animale lo graffia in pieno volto, in maniera violenta e inaspettata. Eppure al telefono era stata diretta. E Chiara.

In quel momento una coda strombazzante d’auto divorava la scena. Il colore bianco dominava e rifletteva tutta la luce sul volto sfregiato di Gianni.

lunedì 3 gennaio 2011

racconti di donne

Il racconto “Stai serena”, di Antonio Pascale, è tra quelli che mi son piaciuti di più nell’ultimo periodo. Insieme a “Scala quaranta”, di Valeria Parrella, vanno a braccetto in questi miei giorni pensierosi. Sono due racconti molto intensi, entrambi vedono come protagonista una donna. In realtà il vero protagonista dei racconti è il cambiamento che irrompe nelle vite delle due donne. Una sotterranea esigenza di seguire i propri sentimenti. E le proprie ossessioni.
Rosaria, nel racconto di Pascale, è spinta da una ferita, che diventa una consapevolezza sul come cicatrizzarla una volta per tutte. La donna del racconto della Parrella, Vera, è spinta da una consapevolezza che diventa dolore, e nell’accettarlo si abbandona al piacere.

Forse questi racconti mi spingono verso una resa dei conti dei sentimenti: quello che ronza da anni nella mia testa e che costringe il cuore a sogni esagerati. Mi sveglio turbato e corro ai ripari con una depressione alla bisogna.
I sentimenti di queste donne sono autentici come lo è il mio pensiero sul da farsi.
Difficile da dichiarare, sublimo in un raccontello a cuor leggero.

Buon anno ai fantasmi di questo blog