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sabato 5 novembre 2011

Zenova


Avevo cinque anni e non arrivavo neppure alle maniglie delle porte. Quella mattina sono stato con tutto il corpo a tenere la porta finestra che dava sul balcone, che a sua volta dava sul mare. Era lì, a cinquanta metri da noi cinque, barricati senza drammi dentro quella casetta con le ringhiere verdi. Sotto di noi un tunnel, dove c’era pure un falegname (maestro d’ascia) che costruiva gozzi di massimo quattro metri. Quel giorno le barche ondulavano e sparivano. Il resto della famiglia era presa dalle solite cose; ogni tanto qualcuno dava un’occhiata fuori, così, tanto per capire. Io no, stavo di schiena alla finestra e premevo, usando tutta la forza di quei cinque anni di storia spensierata che avevo avuto fino allora.
A un certo punto il vento entra dalle fessure, le persiane di legno avevano debolezze ai loro lati, che l’alluminio di oggi, ai suoi occhi, appare come una seicento modesta d’allora davanti a un Suv col suo puzzo di soldi di oggi. Insomma, questo vento non fischiava più, urlava e sbatteva tutto all’aria. Aumento la forza e tengo la finestra sotto controllo. Anche se in realtà non ce la faccio proprio più; devo capire anch’io, e allora infilo la pupilla al posto della chiave e vedo un’onda del mare che scavalca la cinquecento parcheggiata davanti alla “Casa dei marinai”. Urlo più del libeccio e corro ad abbracciare il ventre di mia madre. Chiudo gli occhi di colpo e li riapro solo il giorno dopo. Quando vedo detriti del Garigliano arrivati fin davanti al tabaccaio, che, pare, abbia trovato pure un polipo sbattuto contro la saracinesca di ferro. Poi macchine affogate, muri abbattuti. Il lungomare pareva una spiaggia d’inverno.
Ecco, col pensiero sono corso fino al “75, per cercare di non aggiungere morbosità all’alluvione di ieri a Genova. Quest’ultima riga era doverosa per stabilire un contatto, minimo, inutile forse, ma sentito da noi che a Maggio siamo stati ospiti felici di una splendida città di viuzze, piazze e persone una diversa dalle altre.

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