Avevo cinque anni e non arrivavo neppure
alle maniglie delle porte. Quella mattina sono stato con tutto il corpo a
tenere la porta finestra che dava sul balcone, che a sua volta dava sul mare. Era
lì, a cinquanta metri da noi cinque, barricati senza drammi dentro quella
casetta con le ringhiere verdi. Sotto di noi un tunnel, dove c’era pure un
falegname (maestro d’ascia) che costruiva gozzi di massimo quattro metri. Quel giorno
le barche ondulavano e sparivano. Il resto della famiglia era presa dalle
solite cose; ogni tanto qualcuno dava un’occhiata fuori, così, tanto per
capire. Io no, stavo di schiena alla finestra e premevo, usando tutta la forza
di quei cinque anni di storia spensierata che avevo avuto fino allora.
A un certo punto il vento entra dalle
fessure, le persiane di legno avevano debolezze ai loro lati, che l’alluminio
di oggi, ai suoi occhi, appare come una seicento modesta d’allora davanti a un Suv
col suo puzzo di soldi di oggi. Insomma, questo vento non fischiava più, urlava
e sbatteva tutto all’aria. Aumento la forza e tengo la finestra sotto
controllo. Anche se in realtà non ce la faccio proprio più; devo capire anch’io,
e allora infilo la pupilla al posto della chiave e vedo un’onda del mare che
scavalca la cinquecento parcheggiata davanti alla “Casa dei marinai”. Urlo più
del libeccio e corro ad abbracciare il ventre di mia madre. Chiudo gli occhi di
colpo e li riapro solo il giorno dopo. Quando vedo detriti del Garigliano
arrivati fin davanti al tabaccaio, che, pare, abbia trovato pure un polipo
sbattuto contro la saracinesca di ferro. Poi macchine affogate, muri abbattuti.
Il lungomare pareva una spiaggia d’inverno.
Ecco, col pensiero sono corso fino al
“75, per cercare di non aggiungere morbosità all’alluvione di ieri a Genova. Quest’ultima
riga era doverosa per stabilire un contatto, minimo, inutile forse, ma sentito
da noi che a Maggio siamo stati ospiti felici di una splendida città di viuzze,
piazze e persone una diversa dalle altre.
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