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martedì 8 novembre 2011

Ce la fa.


Non ce la fa a sostenere il cesto carico di storia malata che si porta dietro. La schiena è forte, le braccia pure, allora, cosa c’è che non va? Ci sarebbero questioni piccole che premono sulla parete dell’anima, così mi ha detto una mattina, prima di prendere il solito caffè con me. Lo lascio fare. Sa quello che vuole, in fondo, da anni, segue un destino che scopre di volta in volta, di anno in anno, di lavoro in lavoro. Un gioco. Sta al suo gioco che a tratti appare pazzerello e scomposto, altre, invece, di colpo pare che  tiri fuori un senso del dovere che nemmeno lo “svedese”. Bene. Lo capite? Vuole una seconda volta ogni volta. Durante la prima scalda i motori psicologici, fisici, poi, tutto si spegne e fuoriesce liquido verde che non puzza, però. Esangue tira fuori la scorta di energie, nascoste di notte senza dire niente a nessuno coperto dall’insonnia.
Lasciatelo fare, non vi preoccupate per la sua fatica ansiosa. Non gli date il lexotan, ancora no, c’è tempo per il sonno terapeutico. C’è tempo.
Non offritegli guance o spalle, l’intimità sa ottenerla senza lagne. Aiutatelo a spazzare via le ultime foglie secche che nel suo viale di narcisi abbondano. Anzi, arrivate subito dopo, appena ha riposto il rastrello nel magazzino, e offritegli una bottiglia di vino: il brunello, che ha bevuto solo una volta in vita sua.
Alzo la testa e vedo nuvole spedite che nere spingono pioggia giusto più in là, appena fuori la sua finestra mezza aperta. Che possa poggiare i suoi occhi fuori, nell’aria, lontano dai suoi cari, così da sposare tutta quella pioggia di lacrime che aspettava dal 15 marzo dell’85. Io so, e ho le prove. Tutte nella tasca burocratica che devo sempre portare con me. Ma non mi pesa, so aspettare e ho le spalle giuste per sostenerlo.

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