Mi racconta che una notte di qualche
anno fa aveva deciso di fare una passeggiata sulla spiaggia, era triste, come
lo si è intorno ai vent’anni per un amore che lascia malconci in certe notti;
aveva parcheggiato l’auto sulla strada e percorso tutta la spiaggia fino al
mare. Si era seduto, accanto a un gozzo, e si era messo a osservare il vuoto
nero e silenzioso come appare il mare di notte, d’inverno, quando il cielo è
sereno. A un tratto, continua a
raccontare, vede un uomo o una donna, o qualcosa di simile nella forma che
precipita nel dirupo a destra della spiaggia. Nessun rumore, nessun urlo. Solo uno
spavento dentro di lui, e nessuna persona intorno a cui prestare lo spavento
appena vissuto. Solo. Era solo su quell’enorme spiaggia nera. Scappa in
macchina e accende il motore. Neppure un cellulare da usare. Nel novanta non c’erano.
L’indomani racconta l’accaduto agli
amici senza esagerare sul finale; diceva che aveva sentito un tonfo e niente
più. Oggi ricorda bene invece: era un uomo che precipitava senza pena. Oggi potrebbe
essere la sua disillusione a farlo precipitare. Niente più. Dice che non sente
nient’altro, che una voglia di uscire di scena. Poi aggiunge, dopo un sorso di
vino rosso, che in fondo è meglio scuotere tutto dalla sua testa nevrotica e
mettersi a correre verso la morte. Per guardarla e evitarla, per schiacciarla bene
al suo naturale decorso.
Infine mi ricorda che deve
raggiungere sua moglie nel letto, che non vuole lasciarla sola neanche nel
sonno; i figli, che appena lì vede si scatenano in lui entusiasmi vari, sono a
testimoniare la sua caparbia volontà a grattare la vita dai limiti.
Ora sto un po’ con lui, gli leggo un
racconto di C. e intanto gli verso pure un altro bicchiere di vino.
Le sorelle sono perse nelle loro case
calde e vuote.
Tutti i blog, le poesie e le parole
da tenere strette strette nella testa, sono sull’uscio del ricordo che si
bagnano da una pioggia che profuma di sé. E del suo naso sanguinante, appena
schiacciato contro un muro nero in fondo alla giornata.
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