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giovedì 11 agosto 2011

Odori e umori del vico (appena riscritto, ma poco poco)


Odori e umori del vico

Verso le dieci del mattino mio padre tornava dalla rezza, tipo di pesca che si praticava sulla spiaggia, dove due file di decine di braccia tiravano le reti che due pescatori avevano gettato al largo poco prima. Quel giorno avevo corrotto mia madre per non andare a scuola. Di solito bastava che le dicessi di avere mal di testa o di pancia, che la sua faccia si addolciva di un’espressione complice seppur alimentata da una debolezza di carattere. Insomma, non riusciva a prendere la questione troppo sul serio, oggi capisco che mia madre soffriva già all'epoca, e provava a difendersi.
Dal letto, da dove seguivo tutto il dibattito che si sviluppava nel vico tra le varie comari, il vociare in dialetto stretto mi faceva capire dell’arrivo di mio padre. Un salto ed ero già giù in cucina accovacciato all’angolo del tavolo a fissare le belle sarde ancora vive che brillavano all’interno delle buste di plastica blu. Ancora per poco, ché nel giro di una mezz’ora sarebbero diventate cibo per gran parte degli abitanti del vico. E non solo. Spesso mia zia Civitina compariva sulla porta ansimante e non faceva in tempo a chiedere “quant’ na’ purtat”? che mia madre le aveva già riempito una busta piena piena di sarde. E poi altri parenti o amici sparsi per il quartiere, accorsi come piccioni. Una gioia ‘sta venuta di papà, pensavo con il mal di testa alle spalle.
Verso mezzogiorno mia madre cominciava ad accendere la fornacella: una specie di barbecue alto quaranta centimetri e largo trenta. La carbonella era poca, ma lei la faceva bastare, era brava a risparmiare mamma, così papà era ancora più contento. Intanto le prime sarde s’immolavano per la nostra fame che a quest’ora pulsava forte forte nello stomaco. Io seguivo il dibattito che nel frattempo si era spostato all’interno dei venticinque pollici ancora in bianco e nero.
“Scign”, annunciava dalle scale mia madre a suo marito che riposava al “tavolato”, così era chiamato il nostro primo piano. Chissà perché, forse per il fatto che un tempo nelle case il piano rialzato era in legno. Più che la voce della moglie, dopo che si era svegliato alle tre di notte, credo che a farlo alzare dal desiderato letto fosse il profumo del pesce appena arrostito.
Da lì a qualche anno, dopo aver abbandonato la scuola, anch’io mi sarei svegliato a quell’ora, e insieme a papà si andava a chiamare un altro pescatore qualche vico più avanti dal nostro.  Si chiamava Leonardo. Era un uomo alto poco più di un metro e mezzo e pure con un po’ di gobba e tanti capelli densi di brillantina già alle quattro della mattina, ricordava, almeno nella faccia, Totò. Nella sua casa il profumo del caffè appena fatto si mischiava con antiche puzze, pesce soprattutto, ma anche muffe e tante altre che ricordo ma fatico a trascrivere. Lui, a differenza di mio padre che pescava perché in cassa-integrazione, lo faceva come secondo lavoro, anche se il primo era sempre nell’ambito peschereccio: vendeva il pesce in via Indipendenza nel pomeriggio, quando le signore si muovevano inquiete alla ricerca del cibo migliore per le loro famiglie.
Insieme tutti e tre proseguivamo a piedi per le buie vie di Gaeta fino alla spiaggia di Serapo, dove già trovavamo un fuoco acceso e alcuni uomini insonnoliti intorno. Tutto intorno era silenzio naturale di paese che fa i conti con i propri incubi e sogni, che a volte diventano la stessa cosa in certi ambienti domestici.
Quella mattina le sarde erano davvero speciali, l’odore conquistava tutti, me soprattutto, che le mangiavo come antipasto, ma in realtà non riuscivo a mangiare nient'altro. Mia madre a questo punto si era arrabbiata, e inveiva contro di me facendo il conto rimasto in sospeso dalla mattina. O forse stanca dalle fatiche dell’arrostita, ma soprattutto perché non ne era rimasta neanche una, di sarda, che così tanto aveva desiderato durante la cottura. Mia sorella e mio fratello si erano contenuti; mio padre no, aveva una fame che si portava dalla sera prima, ed io che ingordo ne avevo buttate giù una trentina: ero quello che si meritava di più la ramanzina. Cercavo di spostare l’attenzione sulle notizie del tiggì, ma niente, mamma voleva arrabbiarsi per bene: voleva punirmi. Così, visto che per il libretto delle giustificazioni stavo male, decido di rifugiarmi nel letto a fare il convalescente.
Più tardi mamma aveva deciso di farmi passare tutto, infatti, con la complicità del forno e dei polipi freschi, insieme alla farina lievito sale e acqua, costringeva me e il mio olfatto a rivedere il piano: tornavo volentieri a scuola l’indomani in cambio di un paio di fette di tiella coi polipetti. Viva la scuola!

Odori e umori del vico

Verso le dieci del mattino mio padre tornava dalla rezza, tipo di pesca che si praticava sulla spiaggia, dove due file di decine di braccia tiravano le reti che due pescatori avevano gettato al largo poco prima. Quel giorno avevo corrotto mia madre per non andare a scuola. Di solito bastava che le dicessi di avere mal di testa o di pancia, che la sua faccia si addolciva di un’espressione complice seppur alimentata da una debolezza di carattere. Insomma, non riusciva a prendere la questione troppo sul serio, oggi capisco che mia madre soffriva già all'epoca, e provava a difendersi. 
Dal letto, da dove seguivo tutto il dibattito che si sviluppava nel vico tra le varie comari, il vociare in dialetto stretto mi faceva capire dell’arrivo di mio padre. Un salto ed ero già giù in cucina accovacciato all’angolo del tavolo a fissare le belle sarde ancora vive che brillavano all’interno delle buste di plastica blu. Ancora per poco, ché nel giro di una mezz’ora sarebbero diventate cibo per gran parte degli abitanti del vico. E non solo. Spesso mia zia Civitina compariva sulla porta ansimante e non faceva in tempo a chiedere “quant’ na’ purtat”? che mia madre le aveva già riempito una busta piena piena di sarde. E poi altri parenti o amici sparsi per il quartiere, accorsi come piccioni. Una gioia ‘sta venuta di papà, pensavo con il mal di testa alle spalle.
Verso mezzogiorno mia madre cominciava ad accendere la fornacella: una specie di barbecue alto quaranta centimetri e largo trenta. La carbonella era poca, ma lei la faceva bastare, era brava a risparmiare mamma, così papà era ancora più contento. Intanto le prime sarde s’immolavano per la nostra fame che a quest’ora pulsava forte forte nello stomaco. Io seguivo il dibattito che nel frattempo si era spostato all’interno dei venticinque pollici ancora in bianco e nero.
“Scign”, annunciava dalle scale mia madre a suo marito che riposava al “tavolato”, così era chiamato il nostro primo piano. Chissà perché, forse per il fatto che un tempo nelle case il piano rialzato era in legno. Più che la voce della moglie, dopo che si era svegliato alle tre di notte, credo che a farlo alzare dal desiderato letto fosse il profumo del pesce appena arrostito. 
Da lì a qualche anno, dopo aver abbandonato la scuola, anch’io mi sarei svegliato a quell’ora, e insieme a papà si andava a chiamare un altro pescatore qualche vico più avanti dal nostro.  Si chiamava Leonardo. Era un uomo alto poco più di un metro e mezzo e pure con un po’ di gobba e tanti capelli densi di brillantina già alle quattro della mattina, ricordava, almeno nella faccia, Totò. Nella sua casa il profumo del caffè appena fatto si mischiava con antiche puzze, pesce soprattutto, ma anche muffe e tante altre che ricordo ma fatico a trascrivere. Lui, a differenza di mio padre che pescava perché in cassa-integrazione, lo faceva come secondo lavoro, anche se il primo era sempre nell’ambito peschereccio: vendeva il pesce in via Indipendenza nel pomeriggio, quando le signore si muovevano inquiete alla ricerca del cibo migliore per le loro famiglie.
Insieme tutti e tre proseguivamo a piedi per le buie vie di Gaeta fino alla spiaggia di Serapo, dove già trovavamo un fuoco acceso e alcuni uomini insonnoliti intorno. Tutto intorno era silenzio naturale di paese che fa i conti con i propri incubi e sogni, che a volte diventano la stessa cosa in certi ambienti domestici.
Quella mattina le sarde erano davvero speciali, l’odore conquistava tutti, me soprattutto, che le mangiavo come antipasto, ma in realtà non riuscivo a mangiare nient'altro. Mia madre a questo punto si era arrabbiata, e inveiva contro di me facendo il conto rimasto in sospeso dalla mattina. O forse stanca dalle fatiche dell’arrostita, ma soprattutto perché non ne era rimasta neanche una, di sarda, che così tanto aveva desiderato durante la cottura. Mia sorella e mio fratello si erano contenuti; mio padre no, aveva una fame che si portava dalla sera prima, ed io che ingordo ne avevo buttate giù una trentina: ero quello che si meritava di più la ramanzina. Cercavo di spostare l’attenzione sulle notizie del tiggì, ma niente, mamma voleva arrabbiarsi per bene: voleva punirmi. Così, visto che per il libretto delle giustificazioni stavo male, decido di rifugiarmi nel letto a fare il convalescente.
Più tardi mamma aveva deciso di farmi passare tutto, infatti, con la complicità del forno e dei polipi freschi, insieme alla farina lievito sale e acqua, costringeva me e il mio olfatto a rivedere il piano: tornavo volentieri a scuola l’indomani in cambio di un paio di fette di tiella coi polipetti. Viva la scuola!

Scritto nel 2005, ma rivisto poco poco oggi.


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