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venerdì 2 dicembre 2016

io e mio figlio



     Ieri mentre stavo in macchina passando dal Mandrione pensavo a mio figlio che intanto stava in fila per il firma copie di Salmo, nel negozio Discoteca laziale. Io lì ci andavo a sentire dischi, ogni tanto a comprarli, poiché accanto c’era La casa dei diritti sociali che bazzicavo come tirocinante. L’Esquilino accoglieva tutti i nostri beati turbamenti di inizi anni 90. Sì, pensavo a mio figlio e ai suoi turbamenti: papà ma te pare che si vuole fare una foto con me. E nei suoi occhi vedo quella vergogna che sempre i figli hanno per i genitori: non sono più piccolo, dico parolacce, canto cose toste e rifletto sul perché mi tocca vivere nell’era dei grillini e dei salvini e tu a dirmi solo ‘ste cose sceme. Già, e dopo mentre passo davanti alla Caritas a Ponte Casilino ricordo di quando facevo il tirocinio in quel centro di prima accoglienza minori. Il primo giorno mi diedero le chiavi di una 127 rossa e ci misero dentro due ragazzine rom che si erano graffiate le vene dei polsi: ti prego portale al primo pronto soccorso. Mi ritrovai all’ospedale Pertini per miracolo: per strada ‘ste due mattarelle maledicevano tutti gli automobilisti che incrociavamo, ed io a scusarmi con una specie di lingua dei segni da tangenziale est. Ieri invece ero orgoglioso di andare a prendere mio figlio, di riportarlo a casa dopo che aveva preso 6 a diritto - sto a gode, mi aveva messaggiato – e poi alle 14.40 era partito da solo dall’incrocio di San Basilio per raggiungere Termini. Come facevo un tempo anch’io: prendevo un treno e cambiavo aria, cercavo una scena di vita più spensierata. Una volta che arrivo in via Turati di colpo mi ricordo quando, quindicenne anch’io, in quella stessa via mi ritrovai davanti a una casa dove affittavano una stanza e mi spaventai come un pettirosso quando sull’uscio comparve un marchettaro in mutande. Mi ero iscritto al CineTv, e tutti giorni fare 130 km era una follia almeno quanto quella di riuscire nell’impresa di continuare lì gli studi, in quel tempo matto per me. Mi ritirai a dicembre, così cominciai la mia fase mezza punk solitaria, poco prima di andare via per sempre. Ieri una volta arrivato in negozio ho visto mio figlio che spulciava ciddì da prendere e mi sono emozionato. Nello scaffale poco più in là tutto l’indie-rock anni 90 era in svendita.


   Durante il viaggio verso casa alla radio c’era Gipi che parlava del suo ultimo libro, La terra dei figli. Mio figlio fremeva per sentire il ciddì nuovo, ma intanto stava eccitato su Instagram a dispensare mi piace sull’evento appena vissuto. Gipi diceva cose interessanti, oneste come al solito. A un certo punto mentre origliavo – scrittori non esagerate con lo spoileraggio, ché m’innervosisco – capto che parla del personaggio padre del libro, che aveva rinunciato a far conoscere alcune parole ai figli per proteggerli, salvarli e proiettarli verso un futuro migliore. Ecco, io a quel punto mi sentivo scemo ad ascoltare Gipi mentre mio figlio scalpitava col ciddì tra le gambe. Di scatto stavo per infilarlo nel lettore ma, d’un tratto, una luce bianca: basta questo bla bla bla sul fatto che siamo genitori adolescenti inquieti, basta, io non lo sono del tutto, altrimenti non avrei continuato a sgobbare in un posto dove guadagno appena 1100 euro al mese. No, io sono un genitore che vive nel 2016, con una tarda giovinezza spensierata di tormenti e speranze alle spalle, quindi ora, a 46 anni, tecnicamente sono ancora un non vecchio. Mio padre a 46 anni aveva vent’anni di fabbrica sulle spalle e nessun libro letto sulla coscienza, ma gli volevo bene lo stesso e da lui pretendevo che mi portasse a vedere le partite, non di certo a sentire Vasco Rossi. Oggi siamo in un altro mondo, oggi così come nel libro Eccomi di Safran Foer siamo tutti più vulnerabili, tutti più appesi al presente, ma volendo potremmo essere spensierati ancora, volendo io potrei mollare zavorre e zizzanie e frequentare il mondo che vorrei. Volendo potrei godermi i figli che vivono come figli, e fare al meglio il padre che vive.


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