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mercoledì 22 giugno 2016

La pazza gioia

    Ripenso al mio lento singhiozzare dopo aver visto il film La pazza gioia. Non era proprio un pianto classico, poiché fuoriusciva dalla mia testa un liquido amaro di pensieri e immagini e addii, e stavolta non riuscivo ad arginarne la portata: era la piccola verità che premeva attraverso il film. Stavo sulla Tiburtina, era sera, solo in auto, e ogni volta che prendevo fiato mi ripetevo: è difficile, è difficile. Certe scene del film avevano graffiato e accarezzato la mia memoria, che quotidianamente tengo a bada, e che mostro soprattutto nello scrivere e a pochissime persone rigorosamente selezionate. Nel film ci sono io, c’è mia madre, mia moglie, le mie amiche, mio cugino, vecchi amici; e tante persone matte, belle e brutte, povere e ricche, che ho conosciuto negli anni di vita e di lavoro. Soprattutto c’è quella straniante bellezza di non accusare nessuno per le deprivazioni subite, che nella scena dell'incontro all'ospedate tra Donatella e il padre è incorniciata in maniera struggente. Senza fine. Ecco, questo è davvero difficile da mettere in pratica nelle nostre giornate.

   Avevo quindici anni, una mattina come tante di marzo, un subbuglio nelle stanze, pensieri confusi che riempiono la nostra casa. Si è deciso di ricoverarla. È colpa tua, incautamente dice zia verso di me, o chissà, magari era verso quel nulla rimasto appiccicato al lampadario di gocce di cristallo al centro della stanza da letto anni ’60 dei miei. Così, in quella stanza, io e la mia adolescenza ci prendiamo tutta la colpa: da lì comincio a cambiare per sempre. La colpa. E’ la stessa che mi ha portato a lavorare come Educatore nella struttura dove nel film è stata girata la scena drammatica del Tso. Dieci anni fa era il vecchio reparto dei “residuali manicomiali”, così era chiamato quel posto abitato da persone con mille tic, che parlottavano da sole, fumavano mozziconi, sedevano all’ombra accanto ai demoni, abbracciavano alberi rigogliosi, pisciavano sui muri, e ogni tanto si prendevano le botte da certi infermieri (li ho visti anche istigati da un pingue psichiatria barbuto). Ho resistito sei mesi, avevo un contratto a tempo indeterminato, e durante l’ultimo giorno del periodo di prova mi hanno licenziato. Mi davo malato spesso, non avevo voglia di stare lì. Eppure la responsabile mi aveva ingaggiato entusiasta dopo il colloquio, per cambiare le cose insieme, diceva speranzosa. Dopo un mese mi ha affidato un incarico di responsabilità, ma il sindacato si è messo di traverso, e io sono rimasto nel limbo a osservare scene tremendi, a sopportare colleghi ottusi. Il mio periodo basagliano finiva lì. Poi ho rimosso, ché avevo paura di trattenere nella mente quel buio e quella miseria umana immobile. Poi è arrivato il film di Virzì e ha svegliato e rappacificato sentimenti che si pestavano da decenni: ragazzo moro e magro non è colpa tua! E come fa Donatella Morelli nel film, chiedo soltanto di rivederlo: lei suo figlio, io il ragazzo che ero.
L’altro giorno mi ritrovo in un’Asl, dove c’è questa dolce assistente sociale che ha accolto me, le mie parole e l’origine della mia storia con fare delicato: come se volesse invitarmi a raccontare senza vergogna quello che è stato. Allora chissà, domani lo racconterò o lo reinventerò; intanto il prologo l’hai già letto.




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