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venerdì 4 marzo 2016

Di cosa parliamo quando parliamo di figli?

  
    Che cosa pensi veramente quando scrivi dei tuoi figli? Poco e tutto. Da sempre volevo fare il padre, già a dieci anni. Con gli amichetti preferivo avere il ruolo di guida e frequentavo sempre quelli più strambi, gracilini o ciccioni, insomma, bambini sfigati. Poi negli anni ho pensato che fosse difficile, quasi impossibile, diventare padre in mezzo alle bufere che vivevo quotidianamente. Ancora di più quando stavo depresso e pensavo che scappare con un treno per il nord fosse la premessa per una sparizione perfetta, necessaria. Sono scappato diverse volte, ma in maniera organizzata e declamata soltanto una volta: già a Bologna stavo in lacrime e ascoltavo al telefono la ramanzina tuonante di mio padre. Cosa c’entra questo coi figli? Niente e tutto: i figli ti costringono a esserci sempre, e pure a salvarli, aggiungerebbe lo scrittore De Silva. L’altra notte non riuscivo a dormire, mi tornavano su i pensieri del lavoro, pieni di risposte non date, di riunioni come ring desolanti, di spettegolamenti fatti e subiti, e allora mi sono messo di fianco a fantasticare una fuga. Di quelle che poi diventi randagio e guardi storto le persone per strada. Be’, stavo così esagerando con quei pensieri che mi sono spaventato, seduto, fuori diluviava e così per distrarmi mi sono messo a leggere l’ultimo racconto di Dieci dicembre. Un libro che leggevo così e così, anche se alcune parti erano commoventi, fulminanti e con delle belle immagini. Leggo l’ultimo racconto e mi accorgo che somiglia molto al racconto-incubo che stavo facendo nel pre-sonno. Che paura! Il racconto mi era piaciuto, ma l’idea che avessi anticipato nella mia testa la trama, senza saperne nulla prima, ha creato un’atmosfera che mi ha turbato tantissimo, laicamente sconvolto.
  L’indomani con frenesia mattiniera ho spostato i resti della potatura che ricopriva l’aiuola di mio figlio. Sì, perché insieme l'estate scorsa abbiamo cominciato a riempire di sassi e gerani uno spazio abbandonato, e facendolo quasi sgomitandoci coi sentimenti e con le braccia, mi sono accorto di quanto avevo bisogno di fare insieme  a lui. Lo osservavo sudato e soddisfatto e allora mi ripetevo: ascoltalo di più e ogni tanto, senza paternali, ricordargli che stare al mondo è sempre una lotta contro il tempo, e una festa non un capriccio. E fagli capire, senza far pesare il tuo passato di attivista mezzo progressista e mezzo romantico, che alla fine della giornata bisogna sempre restare con un sogno in tasca. Ancora, prova a trasmettergli la bellezza attraverso l’attesa dei fiori di un Mandorlo. Sussuragli, senza sdolcinare come nelle fiction, che volersi bene è il massimo che si possa scambiare con gli altri, e che il bene poi ci incolla al nostro tempo fino a farci progettare aiuole di pietre e di fiori. I miei figli, specchi splendenti dei miei pensieri più belli. Ora ci sono anch’io in attesa tra di loro, a gambe penzoloni sul ramo di Mandorlo.







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