Inizio a leggere
il libro e non capisco, sto sdraiato a letto e penso di non
capirne proprio nulla di letteratura. Ci sono tutte quelle belle recensioni in giro, ottime
impressioni riguardo a “Stanno tutti bene tranne me”, scritto da Luisa Brancaccio. Non ci sto. Solo il mio
fiuto mi deve condurre alle belle storie, lasciatemi in pace tuittatori che sapete tutto voi. A me piace soltanto leggere racconti, meglio se
contemporanei, vicini alla mia storia, al mio tempo. Per i latini e i francesi
c’è tempo, per i greci nella prossima vita. Insomma, mi distraggo all’inizio
della lettura e questo non è un buon segno. Poi parte il personaggio di
Margherita e m’incanto. La seguo. La vedo. Vorrei mandarle un sms. Mi ricorda
un po’ mia sorella e un altro po’ una mia amica. Sento i suoi passi pesanti per
il quartiere insieme al suo cane. Ne è pieno il racconto di cani, stanno sempre
in mezzo, anche quando scappano tra i cespugli e saldano amori e amicizie, e senti
pure la puzza di ‘sti cani, mentre scavano per cercare di disseppellire carcasse.
I vecchi dolori. Come fanno i loro padroni. Le relazioni, il libro è tutto una
trama di relazioni interrotte: il distacco di Margherita dal marito e dai figli
è raccontato coi dettagli giusti, facendoci apparire una famiglia reale per
metà folle e per metà normale. Nel mezzo scorre il quotidiano sofferente,
sospeso e narrato nei suoi vuoti. Mi stavo affezionando a Margherita quando
arriva il dottor De Seta a soffiarmela, con le sue amorevoli cure. Riesce ad
accoglierla, anche se in maniera un po’ suggestiva usando un linguaggio
accelerato dagli eventi. Suicidi passati, sorelle lontane e un presente di una
donna che si sveglia quando già la sua famiglia sta in piena corsa nella
società, quando in certi palazzi hanno già speculato spietatamente. Lei resta a
letto, e poi se ne va al bar tutta spettinata. Poi esplode tutto. Margherita si
riprende l’essenza, scaccia il sovraccarico, l’inutile, il male.
In un rarefatto e
notturno giardino condominiale avviene un dialogo tra De Seta e una ragazza.
Quasi tre generazioni di differenza permettono una vicinanza speciale; sullo
sfondo esplode un litigio finito in amore che genera riflessioni su di una
panchina, dopo un tentativo d’intervento sollecitato dalla ragazza al
vecchietto. Da lì parte la conoscenza, i due si scoprono, si raccontano. Quando
la mano della ragazza s’insinua nel desiderio aperto di De Seta, la narrazione
si blocca in tempo, evitandoci un voyeurismo superfluo.
Poi emerge una
coppia in fuga nel Chianti, per scordare un dolore. Un uomo che crea i presupposti
per un abbandono, per una lenta separazione: di una sua conferma. Perché il
dolore, quello potente, a volte separa all’istante e scava vie di fuga, che
spesso ci troviamo ad attraversare senza possibilità di un ritorno all’origine.
Ho finito il
libro e non riuscivo a dormire, pensavo alla carica di dolore che abbiamo
sempre accanto, a cui non vorremmo mai aprire le nostre porte blindate. Dalla
finestra, come fa il ragazzo nelle prime pagine, ci piace spiare gli altri con
le loro storture, con le loro piccole meschinità. Questo libro ti costringe a
stare dentro al dolore: il racconto, con degli artifici efficaci, ci rende
partecipi senza ricattarci.
Luisa Brancaccio
crea personaggi da cui non ci separeremo facilmente. Come certi cani, o certi
dolori che silenziosi ci accompagnano verso bui sentieri segreti.
Alla fine mi sono addormentato e ho sognato questo racconto mentre diventava un film, così facendo scavalcava il dolore lasciandone in giro solo il suo odore.