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mercoledì 25 settembre 2013

Le attenuanti sentimentali mi hanno fatto sudare

Decido all’ultimo minuto possibile di andarci. Stavo in macchina e pensavo al tempo che ci stavo impiegando per arrivare alla libreria Minimum fax: più di un’ora e mezza. Allo svincolo impazzito della Tiburtina stavo rinunciando, poi, pensando a tutte le mie rinunce, mi sono messo a pensare ai miei ultimi anni: non male, dài, in fondo hai osato metterti in gioco, mica come quelli che si lagnano sempre sull’uscio della casa di mamma’. Così di colpo mi sono ritrovato a parcheggiare al Circo massimo. Comincio a correre verso Trastevere. Mi fermo in un bar, un po’ fighetto, per prendere un amaro; anzi mezzo, che dovevo continuare la statistica sul prezzo. Tre euro mi chiede la ragazza carina. Azz, ero rimasto ai due euro come massimo e un euro il minimo. Roma centro è un mondo a parte. Arrivo in libreria e mi nascondo dietro un cartello pendente: sono timido dalla nascita, con miglioramenti evidenti negli ultimi anni. Credo che quello accanto a me sia Christian Raimo, che cinguetta pensieroso. Antonio Pascale parla tra libri e persone accovacciate, più o meno dice le cose che già ho sentito dirgli in questi anni; in fondo sono un fan (ma dài?) quindi è il prezzo da pagare. Ma il ricavo è una verve comica, un po’ punk, un po' coraggioso, ed è quello che mi trasmette il suo stare al presente, in una libreria piena di gente affamata di parole e racconti. Antonio ha scritto un altro libro di auto-fiction, con l’aggiunta di un personaggio che ti trascina, divertendoti, nei meandri della fragile contemporaneità che ci tocca vivere. Sto al terzo capitolo e non ti dico gli spunti di riflessione che mi ha già dato. Al termine Antonio mi riconosce, ci abbracciamo e scambiamo qualche chiacchiera: la mia timidezza credo mi faccia apparire distaccato, quindi, proprio quando potrei mettermi a chiacchierare in libertà m’inceppo e ricomincio a sudare. Forse puzzo pure, di certo faccio sempre la figura di quello che sta per i fatti suoi, quando invece avrei voluto prenderlo in braccio e mollarlo solo dopo aver scelto un locale dove bere e parlare.
Antonio è inquieto, un po’ strano, incerto nei movimenti, ma con uno stile tutto suo di accompagnarti nel mondo, che è il suo raccontare di donne, ambienti romani e questioni complesse, sempre partendo dal particolare, dai fatti suoi, cioè, del Personaggio che vaga insieme alla sua poetica nevrotica. Gli uomini lì controlla soltanto, scrive. A me questo basta, non voglio chiedere di più a uno scrittore. Il resto, la tecnica, gli approfondimenti critici non mi appartengono più, questo l’ho capito al ritorno; mi ero nel frattempo asciugato e avevo voglia di chiacchierare sulla questione, ma sul lungotevere c’erano solo turisti e coppiette.

Mi consolo con la dedica: A peppe che lotta e sogna e scrive e pensa.

giovedì 19 settembre 2013

aspetto lezioni


Stasera ero pronto per andare a sentire la riccia scrittrice di Napoli, al Palatino. C’era pure una tentazione mondana alla libreria di S. Lorenzo: un giovane autore letto da un affermato attore giovane. Ma la schiena era schiacciata da pensieri come minuscole  spine timide: aspetto, niente è perso, mi sono detto in macchina mentre ascoltavo il giovane autore di prima alla radio, che parlava del suo libro. Comunque non sono uscito. Tappato in casa come una mosca impaurita dal freddo, mi sono escluso da ogni forma di mondanità che desidero così tanto da sentirmene umiliato, quindi, anche stavolta evito di uscire e mi ridimensiono ascoltando musica alla radio.

Da giorni penso a come raccontare quell’accidente che mi è capitato la settimana scorsa: mentre cambiavo la ruota forata qualcuno mi ha rubato la borsa con dentro portafogli, chiavi e un taccuino con cosette scritte in questi anni in sale d’aspetto, o in riunioni inutili. Appunti del corso della Lattanzi. Abbozzi di progetti di creativi poli per l'infanzia. Prima della foratura stavo tutto eccitato per gli affari che stavo facendo: acquisti di libri usati per mio figlio. Che affari che fai ragazzo di borgata.
Nella saletta del commissariato mi vedevo come un attore disperato in quei film americani dove le parole sono sostituite da smorfie standard. Niente a che vedere con la dignità di Domenico Quirico durante l’intervista in tivvù, dove il giornalista appena liberato non cedeva neppure un secondo al registro dello spettacolo televisivo, ma continuava a raccontare la sua esperienza come se fosse in un circolo lettori di Cuneo, o di Udine. E il mio appesantimento non aveva niente in comune neppure con l’atteggiamento del protagonista de “Le vite degli altri”: si è trasformato umanamente  tendendo verso la sua vera liberazione, abbandonando una condizione avvilente. Questo è avvenuto in maniera quasi impercettibile durante il film.
 
 
Ci pensavo corrucciato durante il ritorno a casa in auto. E pensavo allo stile che abita la fine delle cose, del giorno, quando uno raccoglie quei quattro stracci di sé e ha poi il coraggio di mostrarli, ma solo dopo averli analizzati uno per uno per quelli che sono: infinitesimali frammenti di un pianeta polveroso dove sono davvero poche le cose che seguono un percorso prevedibile, naturale. Allora mi chiedo perché stare a maledire quello che d’imprevisto ci accade, come se fosse sempre una piccola apocalisse da denunciare al quartiere? Meglio rinunciare, sarebbe meglio smettere i panni del personaggio capriccioso e starsene in pace nelle proprie nevrosi come si sta in aereo durante il decollo: con la paura in bocca smorzata da un sorriso infinito. Intanto però prima del decollo, in bagno, ti eri bevuto una bottiglietta di Chianti accompagnato da tre valeriane bionde. Che furbo che sei homo de mondo. Dormi va, che il mondo gira e meraviglia anche mentre tu ronfi inquieto sotto le lenzuola blu della coop.

 

Io non sono quello che voglio essere quando rido di me e ascolto ogni minimo dettaglio dei vostri racconti, no, sono anche quello che un secondo dopo la vostra uscita di scena ripassa a memoria i discorsi appena fatti e cerca di spurgarne il ricordo da ipocrisie e cose non dette, aggiungendo quello che manca per non fuggire davanti ai soliti errori: imparare a passeggiare senza meta già dal mattino.

giovedì 5 settembre 2013

il mio doppio è più simpatico di me


Ci sono ancora concerti in giro, nonostante siamo tornati tutti a lavoro, in città, lontano dai pantaloncini corti e le colazioni alle undici di mattina. Siamo tornati a combattere in città tra debiti e attese: aspetto con piacere l’uscita del nuovo libro di racconti di Antonio Pascale.  Sperare di vedere qualche film passato a Venezia. Leggere ridendo le vignette di Makkox. E voglio incontrare amici, con cui scambiare tempo, racconti e nevrosi. A parte queste mie divagazioni, e altre cosucce che mi tengono in vita, bisogna urlare: sono finite le vacanze! Azz! ma questi ancora che continuano a tentarci coi concerti. Non vado a vedere la reunion (l’ennesima…) dei Csi. Basta, voglio immergermi nella realtà, delle illusioni e degli svaghi non ne ho più bisogno. Mi devo ancora riprendere dallo spaesamento di quando son tornato a Roma: osservavo il salone di casa e desideravo una camera d’albergo confortevole che mi accogliesse come una zia morbida; poi l’indomani mi sono sbloccato e stavo già potando come un forsennato i rami serpenti del glicine ribelle e vigliacco: lo adoro in primavera, per il resto dell’anno ci sfidiamo come cani e gatti.  Anche se poi, una volta rientrato nelle abitudini urbane, quello che hai fatto in un mese intero si accorcia in un unico ricordo: il sentimento frizzante di non gravitare intorno al lavoro, seppur con venature d’angoscia pomeridiana. Che poi ho pure lavorato, sfidando gli ulivi e i gelsomini agguerriti da mesi e mesi di solitudine verde.

 
Insomma l’estate è finita, così come la giovinezza e, come direbbe Battiato: meno male che sia finito quel periodo della vita gonfio e abbagliante e così inconcludente.
Come l’estate, dove le nostre ferie da cittadini ci fanno compiere azioni che altrove parrebbero da dementi: trascinarci in giro per paesi coi bermuda ancora bagnati e chiedere alle vecchiette cose amene, con quel sorriso abbronzato che, se te lo ritrovassi davanti in un giorno lavorativo, sai le madonne che gli tireresti dietro? In vacanza no, non accade, e tutti galleggiano come bimbi con la sola differenza di bevute fiume di birra: d’inverno ti farebbero pensare a un principio di alcolismo, tutte quelle birre buttate giù all’aperto, con le falene alle spalle che danzano davanti alla plafoniera. Eppure accade, e c’è poco da fare: è un tempo dove timidamente ti sbuca il tuo doppio accanto. Succede già dalla prima ora di ferie. A volte si defila, e ti ritrovi depresso sotto un ombrellone comprato al discount che illude: pare che faccia ombra invece aumenta silenziosamente i raggi UV, pur facendo ombra. Stavo morendo d’insolazione e mentre chiedevo agli amici se avessero farmaci dietro, un’amica mi offre fiori di bach. Educatamente mi sono messo a osservare la confezione, temporeggiando – avevo paura che dalla discussione sull’inutilità dei  prodotti omeopatici poi si arrivasse a Grillo, con rischio di conseguente litigata, no, stavolta ho lasciato cadere le provocazioni con filosofia, da spiaggia. Insomma, prima di ridargli i fiori di bach, mi ero spostato di ombrellone e tutto era passato dalla mia testa.

Il mio doppio vuole la pace, mangiare bene, scopare e bere tanta birra. Chissà se un giorno la sua semplicità arriverà a contagiarmi fino a spingermi a creare una fusione, da cui uscirà un mostro, certo, ma almeno non avrò più bisogno di stare in ferie per galleggiare sulla terra, ché la pesantezza non la voglio più.