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martedì 30 aprile 2013

enormi orecchie



van gogh
Il mio amico scrive di sé e del suo umore. Quando spulcio con passione il suo blog, e leggo il suo piegarsi leggero ai malanni stagionali, lasciando fuori dalla pagina le sue profonde e inquiete domande, allora, in quel momento, mi fa dispiacere un po’. Meno male che all’improvviso riesce a tirar fuori racconti dettagliati e neri con adorabili parentesi esistenziali, colorate da intermittenti stati d’animo, e allora leggerlo mi fa davvero piacere e spesso glielo commento, contento.

Con lui ho condiviso, durante un agosto di anni fa, risate e racconti dentro a una stanza assolata dell’asl più a sud di Roma. Ci s’immergeva dentro enormi risate in un luogo dove di solito persone raccontavano cose pazzesche ai loro psichiatri di fiducia. Noi lì isolati come educatori-scrivani, sfruttando l’assenza per ferie della gran parte degli addetti asl, eravamo curiosi di noi e del mondo e aspettavamo che il tramonto arrivasse, per tornare quieti nei nostri cari paesi oscuri. Era ampia quella stanza, e noi la colonizzavamo tutta coi nostri sandali provati da tuscolane battute in solitudine. Caffè lunghi, gelati e sguardi paralizzavano beatamente quei pomeriggi. Con lui avevo sempre voglia di raccontare in quei giorni eccitati e vuoti d’estate, nel farlo cercavo di esorcizzare ogni male antico, elencando la mia vita come indice di un saggio romanzato. Ecco, quest’amico che vedo quattro o cinque volte l’anno; che sento tre o quattro volte al mese; con cui scambio mail o messaggi ogni settimana, bene, questa bella persona, insieme, ma non in contemporanea, ad altre quattro o cinque persone, l’anno scorso, nel mio annus horribilis, questo amico mi ha percepito in bilico sul filo dei giorni grigi: sotto avevo un torrente fognario di pensieri. Non si può dire che mi abbia teso la mano, per narrare il verosimile oggi dichiaro che quello non è stato propriamente tendere la mano; eppure, le sue orecchie, quelle sensibili orecchie abbronzate, mi hanno saputo ascoltare così bene fino a contribuire a far defluire silenziosamente tutta la merda sotto di me. Oggi sotto la mia storia c’è un giardino di ginestre, ortiche e rose, e confido di creare un orto al più presto. Pianterò finalmente un limone.

 Tra vent’anni nelle serate d’agosto mi sdraierò al centro del giardino, sotto al limone suadente, e leggerò le storie ancora non scritte con una birra accanto. Nel monitor di fronte a noi immagini che dissolvono serenamente il futuro accettato.

venerdì 19 aprile 2013

cugina vocina


Vocina stronza vattene via, le tue prediche odiose non le sento più. Mi hai fatto cambiare quattro scuole in quattro anni. Neanche quella ragazzina bionda del nord mi hai fatto baciare in pace. Poi, tutta la noia che m’istigavi, che prendeva la forma di quella stanzetta d’adolescenza buia e terribile, no, vocina stronza, ora non ti ascolto più. Tutti i posti di lavoro che facevi diventare all’improvviso lager, come temporali infiniti; o certe frasi che ricevevo che parevano uscissero dalla bocca di un boia, ma solo per te.  Invece oggi dico che certe frasi mi andavano dette, non solo per subirle ma per ascoltarle e digerirle anche lungo strade incerte. Mi hai fatto scappare da Firenze e dal sogno, in quel pomeriggio di gennaio, quando tutto era ancora da vivere e scrivere, sei arrivata tu in quello studio di posa e, inciampando apposta sulla Nikon, hai creato subbuglio nella mia testa e terrore nelle caviglie. Scappa e scappa, ma solo per tornare nel ventre melmoso del paese noioso. E dai. Tanto lo sai che lontano da lì ho dato il meglio lasciandomi contaminare dalla bellezza inaudita.

E la sera me ne sto a strofinare i pensieri tra lo smog e il silenzio, per aspettare liberato un solletico o un’intuizione, sul davanzale fiorito dei miei desideri. Questo oggi sono io, un incrocio bastardo tra istinto e storia, un po’ mio nonno snello evanescente e un po’ come la mia città aperta e immensa di vuoto.

Ho conosciuto centinaia di persone in questi anni e pure, se mi fermassi un secondo a riflettere, so che ne ho saputo trattenere poche nel mio salotto. Così mi ritrovo a maledire quei giorni di pigrizia che mi procurava sembianze amiche in pingue relazioni annoiate. Perché? C’entra la vocina, Lei c’entra sempre quando sbaglio mosse o dispero senza ragione scappando dalle parole. Già la ragione, quella che adesso è diventata la mia ossessione per difendermi da risacche ideologiche, mai del tutto superate o cacciate per sempre fuori dalle mie viscere nere. Vivo accanto alla ragione e perdo amicizie e ragioni, che avevo da vendere fino all’altro ieri. Dicono gli altri, gli stessi che pugnalano di primo mattino quel lembo di carne viva e dolorante che espongo al mondo dal mio corpo: abnorme desiderio mai sepolto.

Verrai di sera con il buio a prendermi, e le mie braccia agitate si fermeranno: nemmeno un lamento per quel che sono stato e diventato, con te, con Lei e le infinite favole del dormiveglia che da giovane ingoiavo con gli occhi e le orecchie.
 

Quel che resta, dieci minuti o trent’anni conta poco, quel che rimane per te è un sapore di ruggine sulla lingua. Montagne sognate e mari dimenticati, l’odore del mattino di giugno senza scuola e quello della prima sega di sera, nascosto da alberi e canneti. Un treno che sfreccia alle spalle e un ragazzetto piegato accanto al nespolo rugoso, sentinella di sentimenti oscuri che intanto davano forma all’amorevole cura di una piantina di pesco, da me seminata. La ricoprivo di nylon e canne, e per la notte mettevo una candela per riscaldarla. Un incendio poteva incenerirla, e, di fatto, anche intenerirla; in realtà né l’una e nell’altra sciocchezza è avvenuta mai. Sono qui a testimoniare nefandezze di vocine pazze, mica a cadere nel tranello mieloso della nostalgia che affligge metà della mia generazione: vacante tra rabbie prese a prestito via guru e seghe in rete via mail.

 

sabato 6 aprile 2013

le lampade di Claudio vanno ad Aosta

Ho scritto 'sta cosetta per Claudio Muolo e le sue belle lampade. Riguarda l'interessante mostra che lo studio maRAMEo farà ad Aosta tra qualche settimana; intanto beccatevi queste mie impressioni:


Queste lampade ti fissano e aspettano un cenno, un invito a sederti per osservarle meglio, davanti, di dietro e di fronte. Magari anche dall’alto. Io l’ho fatto qualche tempo fa, che poi, all’improvviso, spinto da un impulso di euforia, mi sono alzato dalla sedia con la voglia di toccarle.  Tocco la pietra leccese, rugosa al tatto e soffice alla vista, e ti rimane sulle dita quella sensazione di deserto caldo. Metallo, pietra, carta, me li immagino mentre scappano verso le spiagge d’inverno a cercare i resti dell’estate, del mare, del temporale di ieri. Questo pare che facciano i materiali che compongono le lampade dello studio maRAMEo. Quel pesce là, quello che sta passando davanti ai nostri occhi per poi scomparire un secondo dopo, quel pesce furbo colorato, quello di sicuro ha fatto solo il minimo sforzo per ricrearsi laggiù in spiaggia. E c’è quella libellula che proietta i nostri occhi verso quella stanza di nuvola, dove riposare e aspettare altri sogni.

La bambina che imparò a volare danza blu e raccoglie farfalle di pensieri, evita gli aquiloni che continuano a volare incerti nel movimento, per arrivare su quella parete eccitata, fino a un secondo fa era soltanto orfana e sola.

Alcune lampade mi fanno un po’ paura, soprattutto quelle che scendono dai soffitti; con quei tentacoli perfetti, misurati nella luce per donarci uno spazio d’attesa, al dì sotto, prima della terra.

Messe tutte insieme queste lampade, da comodino, da parete, da soffitto, da divano, da libro, da letto d’amore, sì, tutte queste lampade messe in uno spazio formano una casa, anzi, una storia da illustrare. Sarebbe leggero passeggiare tra quelle forme morbide, allora quelle pietre assumerebbero d’incanto silenzi umani. Farebbero entrare tutti, mostrandoli diversi, forse autentici, e alla fine, l’ultimo che andrebbe a dormire, spegnendo l’ultima lampada, avrebbe una scossa di pace tra le dita.

Claudio una volta mi ha detto che sono le lampade a decidere le case dove abitare, e io gli credo, anzi, lo immaginavo già, e pensavo alla potenza evocativa che tale magia potesse procurare ai genitori adottivi di queste belle lampade. Perché una volta scelta la dimora queste lampade diventano casalinghe, e aspettano che i coinquilini si vadano a collocare intorno a loro, per sbrigare le faccende umane, facendosi illuminare o coccolare, a deciderlo magari ci penserà la notte, o il mattino. Forse il cielo in transito di quel momento.



 

venerdì 5 aprile 2013

adorabile

Anna Maria Ortese

Un'infanzia di stenti e gli studi da autodidatta. Vita difficile di una donna che aveva imparato a usare la solitudine per difendersi. E a scrivere più che a vivere

di Lucrezia e Giorgio Dell'Arti - 12 ottobre 2012

Anna Maria OrteseFoto Milestone
Anagrafe Anna Maria Ortese, nata a Roma il 13 giugno 1914, figlia di Oreste Ortese, impiegato governativo, e di Beatrice Vaccà, dipendente delle Poste, cinque fratelli (uno suo gemello, Antonio, morto a 29 anni) e una sorella (Maria), passò un’infanzia di stenti a vagabondare da un paese all’altro, lasciò la scuola a quattordici anni ma si mise a studiare sui libri dei fratelli e imparò, da sola, il francese e lo spagnolo. L’esordio in poesia nel 1935 con una lirica dal titolo Manuele, come il fratello marinaio, morto in Martinica due anni prima.

Ignorante «Sono ignorante. Non conosco né i greci né i latini; poco dei moderni; nulla o quasi dei modernissimi. Gabriele D’Annunzio è per me, con reverenza, un ignoto» (dal risvolto di copertina del suo libro Angelici dolori).