L’altra sera mentre guardo lo “Spazio bianco” in tv mi è venuto in mente un altro racconto di Valeria Parrella, Behave, letto un anno fa. Il collegamento
forse sta nella disabilità subita dai protagonisti; la disabilità che per i più
è fonte di pietà, simpatia, diffidenza, ma, per un genitore che la subisce è
senz’altro e soprattutto dolore amaro. Da quella condizione emotiva in giù poi
ci sono tante altre cose intense, chiaramente. Come ci sono questi due genitori
innamorati, due persone che riescono a stare in silenzio per ore perché si
fidano uno dell’altro, insomma, una coppia che con il loro affetto discreto mi
ha commosso attraverso gesti consapevoli, parole tenere e un attenzione
ammirevole per il figlio un po’ storto.
Colpisce e non va più via lo sguardo del padre che osserva il figlio mentre attende
di sedersi al Behave, dove fa la pausa pranzo tutti i giorni, e attende con la
bocca aperta e non risponde alle domande degli altri avventori, i quali lo
scavalcano o deridono, e penso che questo sguardo sia di un padre che sa
ascoltare (vedere) il proprio figlio in difficoltà, senza intervenire
immediatamente. È un tipo di difficoltà legata ai ritmi, alle abitudini e
pensieri di una persona non comune, unica, che lascia perplessi gli altri, ma
non il padre, che, ascoltando la voce interiorizzata della moglie, lascia che
il figlio utilizzi il suo tempo come meglio creda.
Il personaggio che ci narra la storia
non prova rimorsi o rancori, a parte un po’ con Dio ogni tanto, ma vive, e qui
la Parrella secondo me dipinge benissimo il carattere, l’esperienza della
disabilità a modo suo, in equilibrio tra affetto e dolore, senza cadere o
scappare; ci racconta il suo affetto attraverso uno sguardo lucido venato di
simpatia che poi culmina nel dialogo tra i due all’interno del pub Behave, che
dà il titolo al racconto.
Nel mezzo della storia c’è la morte
della moglie, che sta nel mezzo solo nel filo narrativo, poiché la morte c’è già
stata e probabilmente ha contribuito a rendere la narrazione a tratti malinconica,
e non per questo pregiudica quella dignità che dà il ritmo alla storia. A un
certo punto il suo sguardo obliquo si sposta sulla città che si sta trasformando
mangiandosi il passato, e questo gli procura un po’ di scoramento che poi
diventa una stoccata un po’ nostalgica contro la modernità, gli architetti e
giù di lì. sullo sfondo la Liverpool che non cè più. Il figlio risponde con un atteggiamento fresco di persona attaccata
alla vita, quindi pronta al cambiamento. Credo sia la miglior risposta che un
genitore possa aspettarsi da un figlio che cresce, nonostante gli inciampi, e vede solo verde davanti a sé. Poi c’è la sua
capacità di fiutare chi è vivo o chi è morto, osservando le persone che
transitano davanti alla panchina, dove sosta assieme al suo amico, appare un
tentativo di considerare l’umanità in base a quello che fa, e non a quello che
pensa o dichiara. O cerca di mostrare goffamente. Le sue lapidarie valutazioni
sono una sorta di lotta contro il conformismo e l’ipocrisia, la stessa che ci
ammazza in certe serate, e in certi ambienti che subiamo.
Infine narra di una stretta al
braccio atrofizzato di un africano assiderato nel canale di Sicilia, che arriva
come un pensiero sempre evitato. Come la morte, come la vita per quello che è per
davvero, che il dialogare tra il padre e il figlio ci trasmette nell’ultima
immagine del racconto.
3 commenti:
Aò, vuoi scrivere altro? o no?
Eh? sì, ma intanto aspetto una sorpresa...
Aò, ma sta sorpresa? e daje, che vojo legge e legge...
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