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domenica 8 gennaio 2012

Latte




Quella mattina non si era visto, e così mi era toccato dare per colazione solo i tozzi di pane alle bambine. Quelle mi guardavano tristi, ma non parlavano, non sapevano proprio cosa dire. Neppure a me premeva spiegare. Che cosa potevo farci io se il lattaio, sempre puntuale alle sette di ogni santo giorno, quella mattina non si era visto? Mica avevamo il telefono allora. Quindi dopo averle dato quei tozzi di pane ho continuato a preparare il pranzo: patate, cicoria e caciotte. Non avevo altro da tirare fuori quel giorno e me lo ricordo bene, visto che suor Elena il giorno prima era stata dura come non mai: le donazioni sono diminuite, non esagerare col mangiare che tanto campano lo stesso. Si riferiva alle orfanelle, chiaramente, mica alle sorelle. Non contestavo mai quello che mi dicevano le suore; in fondo era un lavoro sicuro e per quei tempi ancor di più lo era, visto la guerra e la malaria ovunque.  Però un po’ di rabbia qualche volta mi saliva in gola, ma la facevo scendere subito dopo insieme al vino che tracannavo di nascosto quando andavo in dispensa, a metà mattinata, dopo che mi ero mangiato la panzanella insieme a Gavino, il pastore mezzo sordo che badava alle pecore dell’istituto. A me pagavano bene per l’epoca, poi, il resto, lo arrotondavo coi lavoretti nei campi. Non davanti all’istituto, ché era ancora da bonificare per bene, no, mi spostavo verso Grottaferrata dove la vigna dava da mangiare ancora a tanti padri di famiglia.
Quella mattina il lattaio non si era proprio visto, grazie, direste ora, l’avevano ferito e derubato quei quattro ladri di polli. Anche se quel giorno, invece di tirare il collo alle galline, quelli avevano preferito infilzare il coltello nella coscia muscolosa di Alfredo, il nostro lattaio, che da dieci anni ormai portava il latte tutte le mattine all’istituto. Lo pagava il parroco direttamente, quello della parrocchia sull’Appia Antica. Da noi veniva a portare il latte e a chiacchierare con Suor Benedetta, appena dopo aver scaricato il contenitore giù in cucina; da me insomma. Poi si fermava da Suor Benedetta che stava in lavanderia. A volte la aiutava pure a stendere quei vestitini bianchi, tutti uguali, di taglia e di forma, delle bambine ospiti. Li guardavo mentre si aiutavano a vicenda, sì, in fondo anche Suor Benedetta a modo suo lo aiutava: il lattaio viveva solo, dopo che la giovane moglie nel giro di un mese se l’era presa il colera, lasciandolo solo con il lavoro e una casa non ancora del tutto arredata. Ancora non aveva superato il lutto, e se ne stava sempre pensieroso e serio serio, mentre scaricava i bidoni di latte fresco. Questo la suora non riusciva a sopportarlo e così, un mattino di aprile, che il sole improvvisamente si era scaldato sulle loro teste, gli aveva chiesto se gli portava il cesto dei panni da stendere in terrazza. A lui non pareva vero, e allora subito si era messo  a disposizione. Da quel giorno era diventato l’aiutante ufficiale di Suor Benedetta. Quella mattina Suor Benedetta era triste che il lattaio non fosse venuto, e ancora non sapeva del ferimento; il solo fatto che un giorno, all’improvviso, Alfredo fosse mancato al mattino, mandava in crisi un po’ tutto il sistema. Certo, in più le orfanelle non avevano neanche il latte, ma, come diceva Suor Elena, quelle campavano lo stesso.
Io la mattina alle sette già stavo in cucina. Preparavo con tutta la calma della campagna, le cose per il pranzo e alle tre avevo finito. I cibi per la cena lo riscaldavano le suore verso le sei, appena avevano rinchiuso le galline, e subito dopo la messa.
Quella mattina che mancava il latte, che faceva già caldo e le zanzare cominciavano a ronzare serene e ghiotte per la campagna, mi ricordo di aver visto la faccia di Antonietta troppo scura, e non era mai capitato prima. Neppure dopo il bombardamento del ‘43, quando alcune bombe erano cadute a trecento metri dall’istituto, e da lei, che impaurita si era paralizzata e non voleva saperne di rispondere agli altri: tutto bene, stai bene, Antoniè dicci qualcosa. No, quella mattina, davanti al mucchietto di tozzetti, la sua faccia era davvero sconsolata. Neanche Luigina, sempre vicino a lei, che in pratica parevano due gemelle, riusciva a parlarle: la fissava terrorizzata del suo silenzio. Quella mattina era successo qualcosa di più: qualcosa che le aveva fatto tremare tutto il corpo, dentro la sua tenera anima di bambina. Stavo sempre a guardarle le bambine mentre mangiavano, era il momento che più mi piaceva della giornata; anche se qualche volta mi toccava tirare fuori la voce grossa per farle tornare al loro posto, quando si litigavano le mele o i pezzi di pane alla fine del pranzo quando le suore distribuivano le cose avanzate. Capitava un paio di volte la settimana, al massimo. Per il resto dei giorni tutto era contato, se non addirittura era meno dell’occorrente. In fondo la guerra non conosceva davvero pietà per nessuno, figuriamoci per le orfanelle. Pena sì, quanta ne volevano, la domenica soprattutto, quando le Pie donne si presentavano nella chiesetta dell’istituto con formaggi freschi e ciambelline. Trasferivano tutta la loro pena campagnola, acquisita giorno per giorno, notte dopo notte, dentro a quei casolari patriarcali di campagna,  sulle faccette di quelle bambine, che poi, in verità, non avevano nemmeno la possibilità di rifiutarla quella pena, che prendeva subito la forma del cibo e di sorrisi sinceri. E necessari.
Antonietta era stata la prima bambina a entrare nella casa di S. Maria. Me la ricordo quella mattina di novembre, che pioveva già da quattro giorni, e stavamo al buio già dalle dieci del mattino. Era accompagnata da un uomo, che poi abbiamo saputo essere un parente suo ma anche il segretario del podestà del paese: l’accompagnava in qualità soprattutto di quest’ultimo ruolo, di familiare c’era solo la puzza di stabbio che si portavano dietro entrambi  come coda puzzolente. La carrozza col segretario è ripartita appena un’ora dopo la venuta; la bambina stava già con gli occhi sbarrati davanti all’enorme statua azzurra con il bambinello scorticato di vernice in braccio all’immacolata; anche nel senso che era rimasta immacolata di vernice. Nessuno riusciva a toccarla, vista l’altezza, così tutti i devoti della domenica si limitavano a strusciare le mani callose sul bambinello. Antonietta aveva con sé: due mutandine, una maglietta, una gonna e un rosario. Il resto era addosso. Per un mese le è toccato dormire da sola in uno stanzone con altre decine di brandine vuote: donazione di Natale degli alpini. La seconda bambina, Luigina, era entrata quando Antonietta aveva già assistito a un centinaio di messe e altrettanti rosari farfugliati. La prima settimana Antonietta aveva bevuto solo latte, e rifiutava silenziosamente tutto il resto. Che poi, in realtà, era davvero poco. Appena si sono incontrate le due orfanelle si sono abbracciate come due polipe e non volevano saperne di staccarsi l’una dall’altra. Le suore erano ricorse al solletico per separarle, e quelle, invece di ridere, si erano messe a piangere per il nervoso.  Tutte le notti si avvinghiavano in pace e parlavano fitto fitto fin che potevano. Poi Luigina, sempre lei, crollava dal sonno per prima e Antonietta restava in silenzio per un po’ con il sorriso che si vedeva pure al buio.
2.
Ero appena venuto, da dietro, dentro mia moglie, che si mette a squillare il telefono. Era il cuoco dell’istituto: aveva finito la registrazione del racconto del primo periodo trascorso all’orfanotrofio di Zia Luigina e voleva farmela ascoltare subito. Quel pomeriggio, tra la noia e il lavoro, mia moglie aveva deciso d’infilarci me e tutto il mio amore violento. A lei piaceva, non c’è che dire, né vergognarsi, e quando poi non voleva, allora non perdeva tempo a farmelo capire. Così mi sono fatto la doccia in fretta e una volta in macchina ho mandato un sms sdolcinato a mia moglie e uno di conferma dell’appuntamento al cuoco. La strada piena di curve era troppo in salita quel pomeriggio, così da costringermi ad accelerare più del solito, con la faccia appiccicata sullo sterzo e i capelli caduti sulla fronte. I semafori erano tutti verdi, e pedoni pronti a lanciarsi sulle strisce, non c’erano. Si mischiano, infrangendosi contro il lunotto rimbalzando sulla mia faccia, i miei pensieri del recente ricordo dell’orgasmo con la faccetta seria seria di Zia Luigina che mi confida del suo amore all’istituto. Un giovanotto che lavorava la terra in primavera, e che durante la pausa panzanella, col cuoco, stava tutto il tempo a fissarla mentre lei intrecciava il midollino per fare i cesti da vendere alla fiera dell’estate. A lei non pareva vero che un ragazzone moro e grosso la stesse a guardare tutto il tempo; a parte qualche marito delle pie donne, nessuno le dedicava più di qualche secondo nel guardarla nel suo essere femmina, seppur ancora acerba. Invece questo stava sempre a fissarla. Dal suo sorriso, dopo il silenzio del racconto, capivo che forse qualche fatto c’è stato tra loro due, ma, purtroppo non potrò più chiederle dei fatti accaduti, ché appena un mese dopo, mi ha chiamato Lorenzo e mi dice che è morta nel sonno. Meno male nel sonno, un’altra sfortuna da sveglia non se la meritava Zia Luigina.

“ Ciao, come va?”.
“ Bene ragazzo, bene. A parte i maledetti acciacchi, il resto è tutto in piedi”.
“Meno male va, allora, sentiamo la registrazione?”.
“Come no, intanto ti faccio il caffè, no?”
“Certo, al caffè non so mai rinunciare”.

Non è male questo racconto. In fondo mi aspettavo parole piene di pena e di resoconti edificanti di preti e suore alle prese con ’ste piccole disgraziate. Invece, con stupore quest’uomo mi dice cose vecchie con parole coraggiose, vive perlomeno, nel ricordo che non cede alla nostalgia cieca e sorda, che spesso i vecchi tirano fuori per sfidare i giovani “ che so’ proprio cambiati oggi”, alla prima occasione. No, questo cuoco al servizio anni e anni presso quell’istituto triste, non ha perso l’occasione di fare i conti con un posto, appunto, triste per le storie degli ospiti e bello per quello che faceva lui per loro. Partendo dalla pasta al forno squisita, a detta di zia Luigina, fino a quel modo di guardarle carico di umanità: molto rara in un’epoca dove era soprattutto la retorica a dire la sua, quindi il non vero, quindi, e ora possiamo dirlo, che c’era un tale disprezzo verso queste sfigate piccole piccole, nere nere, che lui tentava di proteggere riempiendole di sguardi e piatti buonissimi. Altro non sapeva fare, all’epoca quello poteva fare. Almeno l’ha fatto.
Ora però devo scavare di più; al santuario ci sono solo pubblicazioni di beati e opere missionarie nel mondo. A dire il vero c’era anche un libro-documento, che però arrivava fino al trentotto. E poi? Era così triste da non testimoniarlo il periodo successivo? Saltano le pubblicazioni esposte da questo libro di foto, direttamente all’inaugurazione della nuova chiesa negli anni ottanta, con tanto di sindaco e vescovo in prima fila. Ci ho provato a chiedere qualche informazione: risposte mosce come le loro facce da suore mancate. Sì, perché di suore vere, ne ho viste poche in giro là. E già, di ‘sti tempi gli aspiranti religiosi se li vanno a capare in India e mica sempre ci pigliano. Una volta un prete indiano si è ubriacato e si è messo a molestare le infermiere nella comunità dove lavorava un mio amico; uno scandalo ben gestito nei giorni successivi. Non c’è che dire, questi quando vogliono sanno insabbiare pure la sabbia. Comunque a ‘sti pretini o suorine a volte scatta come una scintilla e tutto lo strato mieloso d’infantile cattolicesimo esplode in mostruose particelle vitali: si aggrappano a tutto ciò che esprime vita nei paraggi, altro che meditazione. Altroché.

Tonino si è fissato che dobbiamo andare a trovare Antonietta, che nel frattempo ha più di settantaseianni  e viene badata da una signora russa o della Lituania, dice che non l’ha ancora capito bene. Dice, e questo fuori dalla registrazione, che una volta uscita dall’istituto, nel ’51, è tornata a vivere al paese presso una zia. Antonietta non si è mai sposata, e questo me l’ha raccontato zia Luigina, e che ha preferito rimanere nella casa paterna, dove tuttora vive, anche se assistita per i suoi tanti acciacchi. A dire il vero, e questo Tonino me l’ha detto, che dalla storia dei tozzi di pane in poi si era capito che gli era affezionato, quindi questo cuoco l’ha sempre saputo che la ragazzina era troppo triste per mettersi in carreggiata, sposarsi e far dei figli, invecchiare e crepare più tardi possibile. No, questa ragazza aveva sulla faccia tutti i silenzi glaciali mai digeriti fino in fondo. Qualche volta ha sofferto per lunghi periodi e i nipoti sono stati costretti a ricoverarla, anche se per brevi periodi, presso una clinica psichiatrica.
Questo si è fissato, e vuole andarla a trovare al paese. Non gli ho detto di no, e forse infatti non ci andrò, ma lui, anche se non me lo dice, vuole in cambio della registrazione una gita da Antonietta; ha quasi novant’anni, e si sta attaccando alla sua memoria per non cedere al mostro nero che lo guarda tutte le mattine dalla finestra di fronte. Così mi dice, quando vuole sdrammatizzare la paura di morire. Alla fine, così dice lui, dovremmo restare una notte in albergo in cima al paese, perché lui non si accontenta di restarci solo una giornata, no, deve passarci tutto il fine settimana. Ci devo pensare e intanto mi metto a trascrivere tutta la registrazione, e poi vedremo chi la spunta. Già il ricordo della faccia corrucciata di zia Luigina mentre mi parla di quel periodo di fame e freddo mi ha sconvolto, ora, e anche per due giorni interi, mi tocca subire tutto il silenzio di Antonietta. Ci penserò stanotte, magari dopo le cose d’amore e dopo aver letto qualche pagina del libro.
In realtà a me ‘sta storia non interessava poi tanto, ma Zia Luigina, attraverso Lorenzo, mio cugino, visto poco negli ultimi anni ma compagno di banda durante l’infanzia, mi ha confessato che la madre aveva bisogno di parlare di quel periodo a tutti i costi. Mi pareva strano che zia Luigina avesse detto a tutti i costi, ma quando poi mi sono presentato con il registratore e una bottiglia di chinotto, ho capito, dalla sua faccia soprattutto, che ‘sta vecchietta simpatica e un po’ toccata, stava per eruttare parole lavate, nel senso di ripulite da tutte le fantasie che negli anni le ha permesso di sopportarle meglio. Nel loro carico di sofferenza, e nella loro assurdità, in quegli anni di neo-realismo e pre-boom, che queste vite di bambine venivano tenute in sospeso a bagnomaria, qui inteso in senso letterale, solo per pigrizia istituzionale. Caspita, c’era da riaccompagnarle subito, appena finita la guerra, presso i parenti rimasti, o comunque dentro qualche famiglia. Invece se le tenevano a sentir messe e a fare lavori massacranti in cima alla collina, e intorno solo malaria e solitudine. E no, zia Luigina aveva ragione a parlare. Anche se mi sono subito appassionato a questa storia, osservando tutti i detriti che erano arrivati negli anni della mia giovinezza alle rive della storia della mia famiglia, oltre che per i buchi neri di zia, che poi diventavano veri e propri periodi di depressioni; la comparsa di Tonino, che zia chiamava affettuosamente il cuoco, mi aveva spinto a capire meglio di cosa erano fatti ‘sti detriti e buchi neri, anche se il tutto mi pareva più lava incombente. Insomma, intanto volevo starne alla larga, e preferivo godermi mia moglie nel primo anno di convivenza, magari poi un giorno mi ci sarei dedicato.  Mia moglie mi reclamava spesso, e non sapevo più che scuse dirle pur di andare appresso ai racconti di zia Luigina e del suo cuoco. Passavo dal mio lettone ortopedico e godereccio a quello di lana e gonfio di guai di zia. Ma non comandavo io, erano le loro facce a indicarmi le cose da fare.
3.
Ecco Antonietta dopo la lunga chiacchierata col cuoco: si appoggia alle sedie mentre raggiunge la sua poltrona verde all’angolo del salone, accanto al caminetto. Un fiume di parole, anche se poi quel fiume appariva inquinato da fatti inenarrabili in altre epoche: ora mi sa che siamo tutti pronti, chi ad ascoltare e chi a raccontare.
Antonietta ha raccontato che il lattaio è stato ferito nell’agguato per vendetta di un nazista. Lo stesso che il giorno prima aveva tentato di violentare una bambina dell’istituto, davanti al corpo paralizzato di Antonietta. Il lattaio sentendo le urla è corso per aiutare; il tedesco fiutando il pericolo si è dato a gambe. Alfredo l’ha acchiappato in fondo alla vallata e sbattendolo a terra l’ha riempito di cazzotti, fino a farlo svenire. L’indomani un commando di compagni del violentatore ha aspettato il lattaio lungo l’Ardeatina; qui Antonietta si ferma nel racconto e dice: ma chi gliel’ha detto che passava a quell’ora il lattaio? poi continua a parlare del fattaccio e sul sangue che ha versato il povero Alfredo, il quale vedeva tutto il suo latte sgorgare dalle taniche bucate dai compagnoni tedeschi. Secondo me Alfredo era più incazzato che quel giorno, e per la prima volta dopo dieci anni, non potesse portare il latte all’istituto, che alla vista della sua coscia insanguinata ad opera di quei delinquenti nazisti. Antonietta dice che aveva visto il giorno prima queste manone tedesche che si accanivano su quella bambina  e non sapeva cosa fare. Dice che pensava solo che da lì a poco sarebbe successo anche a lei, visto che quello che succedeva a loro dell’istituto era sempre un po’ a effetto domino. Ognuna somigliava giorno dopo giorno alle altre, nelle fisionomie come nei desideri, ma tutto dentro la grande disgrazia che le faceva sentire intime e indissolubili una dall’altra. Erano un enorme corpo di bambola martoriato da quegli anni, sciagurati per le loro storie.  Be’, ascoltare questi fattacci mi ha piegato le gambe e mi sono sentito di colpo più vecchio anche di Antonietta, e morto più di zia Luigina.
Sapevo che quei nove mesi di occupazione nazista furono pieni di soprusi e violenze di ogni tipo, ma che dovesse capitare proprio a queste bambine già vittime di storie sfortunate, mi sembrava troppo da sopportare in quella casa densa di odori e ricordi lucidi di Antonietta.
Pensavo queste cose mentre lungo il corso di questo paesetto arroccato mi fumavo l’ennesima sigaretta. Stasera esco con la nipote di Antonietta, le ho detto che volevo chiederle tante altre cose che proprio non riuscivo a chiedere durante la solenne intervista che il cuoco ha fatto a sua zia. Ho visto la faccia del cuoco tesa e lì lì per esplodere in un pianto; che non c’è stato, e forse, non ci sarà mai almeno davanti ai miei occhi. Dopo questa notizia di violenza ognuno di noi se n’è andato via dalla scena. Luisa, la nipote di Antonietta, ha più o meno la mia età e fa la sarta. Tra l’altro è molto bella, e so anch’io che la bellezza paralizza, quindi, devo bermi qualche birra prima d’incontrarla. Ora sono qui, in questo bar stretto e lungo, con un barista impiccione di fronte che mi ha già fatto mille domande. Ciccione di un barista pensa ai fatti tuoi e ai tuoi caffè bruciati, che non sai fare per niente. Esco da questa trappola di bar e mi avvio verso la sartoria di Luisa. Voglio vederla prima di stasera. Entro, e mentre lo faccio, sbatto contro il banco pieno di scampoli colorati. Abbraccio forte Luisa, e lei già piange sul mio maglione nero. Non so cosa fare, allora penso a quei film lenti, a quei piano-sequenza infiniti dove si sente pure il rumore delle lacrime che cadono a terra, così bacio Luisa. Un bacio che scioglie qualcosa. Ci sediamo sul divanetto della sartoria, che solitamente accoglie clienti che hanno tempo da perdere, e ci guardiamo a lungo negli occhi. La faccia di Zia Luigina si mette in mezzo, e allora freno di colpo tutti i baci in arrivo.
“Ma tu lo sapevi?”
“No”
“Chissà quante cose non sappiamo ancora”
“Io ne so anche un’altra, infatti”
“Cosa?”
“ Zia Antonietta ha dovuto abortire a quindici anni”.
“Cazzo, e no! Pure questa ora…”
Il resto non ve lo dico, né di Luisa e me e né del racconto della violenza all’istituto. Me lo tengo per me, ché non mi va di raccontare tutti i fatti che neppure il ventre della guerra è riuscito a inghiottire.

Il giorno dopo avevo la febbre. Mia moglie mi ha accudito con cura e molta tenerezza. Mi sa che abbiamo fatto pure l’amore, solo che avevo trentanove di febbre e quindi confondevo la sua pelle con la mia, e non sentivo nulla che non fosse pesante e leggero allo stesso tempo, come i miei pensieri affaticati di allucinazioni.

Davanti a me tre fotografie in bianco e nero, un portatile grigio e una bottiglia di vino rosso da scolare entro stanotte, entro la storia che voglio scrivere. Fuori tutti voi, e anche mia moglie, e pure il datore di lavoro coi denti avvelenati per le mie lunghe assenze. Fuori anche tutto questo tempo che utilizza i fegati dei disoccupati come trofeo nelle trasmissioni tivù, e nelle piazze surriscaldate da cenere riciclata. Sposto i miei occhi verso gli scampoli di stoffa di Luisa; alcuni per fortuna vanno a coprire anche le gambe venose di Antonietta, seduta sopra la sua poltrona ergonomica, regalo di una famiglia generosa almeno quanto i grandi seni di Luisa. Che avevo davanti ai miei occhi in quei momenti di spaesamento per quelle parole amare, di fatti e cose, che tutti credevamo seppellite per sempre. Tranne Antonietta, che le ha custodite come un cancro benigno dentro di sé, notte e giorno, ricovero dopo ricovero, per poi buttarle in faccia al cuoco, a me e a Luisa, in un sabato di maggio. Testimoni schiacciati da un racconto diretto e senza frasi inutili. Questo volevamo? Mi ha detto Luisa subito dopo il bacio e prima di sbattermi in faccia l’altra verità. Non le ho risposto, e avrei voluto stringerle i capezzoli tra le dita, poiché desideravo solo dare risposte simboliche e vuote di realtà. Volevo scappare in città, dove mia moglie se ne stava serena tra le stanze del nostro appartamento con vista parco: tante specie d’alberi, cespugli vari e margherite, che io raccolgo nelle sere estive prima di salire in casa. Ma sotto, nei cortili e nelle strade zeppe di auto, ci sono tante persone che si sfioravano senza annunciare drammi o verità, solo sussurri appena percepiti di cose semplici e distratte. Lei dal terrazzo sa dominare la scena, con quei suoi bei capelli biondi, e già pensa a cosa preparare per cena, e già organizza pure tutte le tenerezze della sera, nel salone coi faretti colorati. Era fatta così: premurosa sul filo dell’ansia. Io mi tuffavo nei suoi seni, tra le sue cosce come in un lago appena un po’ agitato. Zia Luigina la adorava mia moglie: com’è bella e attenta ‘sta ragazza, diceva dopo certi pranzi di domenica d’inverno, nella sua casetta piena di foto e medicine

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