Quella mattina non si era visto, e così
mi era toccato dare per colazione solo i tozzi di pane alle bambine. Quelle mi
guardavano tristi, ma non parlavano, non sapevano proprio cosa dire. Neppure a
me premeva spiegare. Che cosa potevo farci io se il lattaio, sempre puntuale
alle sette di ogni santo giorno, quella mattina non si era visto? Mica avevamo
il telefono allora. Quindi dopo averle dato quei tozzi di pane ho continuato a
preparare il pranzo: patate, cicoria e caciotte. Non avevo altro da tirare fuori
quel giorno e me lo ricordo bene, visto che suor Elena il giorno prima era
stata dura come non mai: le donazioni sono diminuite, non esagerare col
mangiare che tanto campano lo stesso. Si riferiva alle orfanelle, chiaramente,
mica alle sorelle. Non contestavo mai quello che mi dicevano le suore; in fondo
era un lavoro sicuro e per quei tempi ancor di più lo era, visto la guerra e la
malaria ovunque. Però un po’ di rabbia
qualche volta mi saliva in gola, ma la facevo scendere subito dopo insieme al
vino che tracannavo di nascosto quando andavo in dispensa, a metà mattinata,
dopo che mi ero mangiato la panzanella insieme a Gavino, il pastore mezzo sordo
che badava alle pecore dell’istituto. A me pagavano bene per l’epoca, poi, il
resto, lo arrotondavo coi lavoretti nei campi. Non davanti all’istituto, ché
era ancora da bonificare per bene, no, mi spostavo verso Grottaferrata dove la
vigna dava da mangiare ancora a tanti padri di famiglia.
Quella mattina il lattaio non si era
proprio visto, grazie, direste ora, l’avevano ferito e derubato quei quattro
ladri di polli. Anche se quel giorno, invece di tirare il collo alle galline, quelli
avevano preferito infilzare il coltello nella coscia muscolosa di Alfredo, il
nostro lattaio, che da dieci anni ormai portava il latte tutte le mattine
all’istituto. Lo pagava il parroco direttamente, quello della parrocchia
sull’Appia Antica. Da noi veniva a portare il latte e a chiacchierare con Suor
Benedetta, appena dopo aver scaricato il contenitore giù in cucina; da me insomma.
Poi si fermava da Suor Benedetta che stava in lavanderia. A volte la aiutava
pure a stendere quei vestitini bianchi, tutti uguali, di taglia e di forma,
delle bambine ospiti. Li guardavo mentre si aiutavano a vicenda, sì, in fondo
anche Suor Benedetta a modo suo lo aiutava: il lattaio viveva solo, dopo che la
giovane moglie nel giro di un mese se l’era presa il colera, lasciandolo solo
con il lavoro e una casa non ancora del tutto arredata. Ancora non aveva
superato il lutto, e se ne stava sempre pensieroso e serio serio, mentre
scaricava i bidoni di latte fresco. Questo la suora non riusciva a sopportarlo
e così, un mattino di aprile, che il sole improvvisamente si era scaldato sulle
loro teste, gli aveva chiesto se gli portava il cesto dei panni da stendere in
terrazza. A lui non pareva vero, e allora subito si era messo a disposizione. Da quel giorno era diventato
l’aiutante ufficiale di Suor Benedetta. Quella mattina Suor Benedetta era
triste che il lattaio non fosse venuto, e ancora non sapeva del ferimento; il
solo fatto che un giorno, all’improvviso, Alfredo fosse mancato al mattino,
mandava in crisi un po’ tutto il sistema. Certo, in più le orfanelle non
avevano neanche il latte, ma, come diceva Suor Elena, quelle campavano lo
stesso.
Io la mattina alle sette già stavo in
cucina. Preparavo con tutta la calma della campagna, le cose per il pranzo e
alle tre avevo finito. I cibi per la cena lo riscaldavano le suore verso le
sei, appena avevano rinchiuso le galline, e subito dopo la messa.
Quella mattina che mancava il latte,
che faceva già caldo e le zanzare cominciavano a ronzare serene e ghiotte per
la campagna, mi ricordo di aver visto la faccia di Antonietta troppo scura, e
non era mai capitato prima. Neppure dopo il bombardamento del ‘43, quando
alcune bombe erano cadute a trecento metri dall’istituto, e da lei, che
impaurita si era paralizzata e non voleva saperne di rispondere agli altri:
tutto bene, stai bene, Antoniè dicci qualcosa. No, quella mattina, davanti al
mucchietto di tozzetti, la sua faccia era davvero sconsolata. Neanche Luigina, sempre
vicino a lei, che in pratica parevano due gemelle, riusciva a parlarle: la
fissava terrorizzata del suo silenzio. Quella mattina era successo qualcosa di
più: qualcosa che le aveva fatto tremare tutto il corpo, dentro la sua tenera
anima di bambina. Stavo sempre a guardarle le bambine mentre mangiavano, era il
momento che più mi piaceva della giornata; anche se qualche volta mi toccava
tirare fuori la voce grossa per farle tornare al loro posto, quando si litigavano
le mele o i pezzi di pane alla fine del pranzo quando le suore distribuivano le
cose avanzate. Capitava un paio di volte la settimana, al massimo. Per il resto
dei giorni tutto era contato, se non addirittura era meno dell’occorrente. In fondo
la guerra non conosceva davvero pietà per nessuno, figuriamoci per le
orfanelle. Pena sì, quanta ne volevano, la domenica soprattutto, quando le Pie
donne si presentavano nella chiesetta dell’istituto con formaggi freschi e
ciambelline. Trasferivano tutta la loro pena campagnola, acquisita giorno per
giorno, notte dopo notte, dentro a quei casolari patriarcali di campagna, sulle faccette di quelle bambine, che poi, in
verità, non avevano nemmeno la possibilità di rifiutarla quella pena, che
prendeva subito la forma del cibo e di sorrisi sinceri. E necessari.
Antonietta era stata la prima bambina
a entrare nella casa di S. Maria. Me la ricordo quella mattina di novembre, che
pioveva già da quattro giorni, e stavamo al buio già dalle dieci del mattino. Era
accompagnata da un uomo, che poi abbiamo saputo essere un parente suo ma anche
il segretario del podestà del paese: l’accompagnava in qualità soprattutto di quest’ultimo
ruolo, di familiare c’era solo la puzza di stabbio che si portavano dietro
entrambi come coda puzzolente. La carrozza
col segretario è ripartita appena un’ora dopo la venuta; la bambina stava già
con gli occhi sbarrati davanti all’enorme statua azzurra con il bambinello
scorticato di vernice in braccio all’immacolata; anche nel senso che era
rimasta immacolata di vernice. Nessuno riusciva a toccarla, vista l’altezza,
così tutti i devoti della domenica si limitavano a strusciare le mani callose
sul bambinello. Antonietta aveva con sé: due mutandine, una maglietta, una
gonna e un rosario. Il resto era addosso. Per un mese le è toccato dormire da
sola in uno stanzone con altre decine di brandine vuote: donazione di Natale degli
alpini. La seconda bambina, Luigina, era entrata quando Antonietta aveva già
assistito a un centinaio di messe e altrettanti rosari farfugliati. La prima
settimana Antonietta aveva bevuto solo latte, e rifiutava silenziosamente tutto
il resto. Che poi, in realtà, era davvero poco. Appena si sono incontrate le
due orfanelle si sono abbracciate come due polipe e non volevano saperne di
staccarsi l’una dall’altra. Le suore erano ricorse al solletico per separarle,
e quelle, invece di ridere, si erano messe a piangere per il nervoso. Tutte le notti si avvinghiavano in pace e
parlavano fitto fitto fin che potevano. Poi Luigina, sempre lei, crollava dal
sonno per prima e Antonietta restava in silenzio per un po’ con il sorriso che
si vedeva pure al buio.
2.
Ero appena venuto, da dietro, dentro
mia moglie, che si mette a squillare il telefono. Era il cuoco dell’istituto:
aveva finito la registrazione del racconto del primo periodo trascorso
all’orfanotrofio di Zia Luigina e voleva farmela ascoltare subito. Quel
pomeriggio, tra la noia e il lavoro, mia moglie aveva deciso d’infilarci me e
tutto il mio amore violento. A lei piaceva, non c’è che dire, né vergognarsi, e
quando poi non voleva, allora non perdeva tempo a farmelo capire. Così mi sono
fatto la doccia in fretta e una volta in macchina ho mandato un sms sdolcinato
a mia moglie e uno di conferma dell’appuntamento al cuoco. La strada piena di
curve era troppo in salita quel pomeriggio, così da costringermi ad accelerare
più del solito, con la faccia appiccicata sullo sterzo e i capelli caduti sulla
fronte. I semafori erano tutti verdi, e pedoni pronti a lanciarsi sulle strisce,
non c’erano. Si mischiano, infrangendosi contro il lunotto rimbalzando sulla
mia faccia, i miei pensieri del recente ricordo dell’orgasmo con la faccetta
seria seria di Zia Luigina che mi confida del suo amore all’istituto. Un
giovanotto che lavorava la terra in primavera, e che durante la pausa
panzanella, col cuoco, stava tutto il tempo a fissarla mentre lei intrecciava
il midollino per fare i cesti da vendere alla fiera dell’estate. A lei non
pareva vero che un ragazzone moro e
grosso la stesse a guardare tutto il tempo; a parte qualche marito delle
pie donne, nessuno le dedicava più di qualche secondo nel guardarla nel suo
essere femmina, seppur ancora acerba. Invece questo stava sempre a fissarla.
Dal suo sorriso, dopo il silenzio del racconto, capivo che forse qualche fatto c’è stato tra loro due, ma,
purtroppo non potrò più chiederle dei fatti accaduti, ché appena un mese dopo, mi
ha chiamato Lorenzo e mi dice che è morta nel sonno. Meno male nel sonno,
un’altra sfortuna da sveglia non se la meritava Zia Luigina.
“ Ciao, come va?”.
“ Bene ragazzo, bene. A parte i
maledetti acciacchi, il resto è tutto in piedi”.
“Meno male va, allora, sentiamo la
registrazione?”.
“Come no, intanto ti faccio il caffè,
no?”
“Certo, al caffè non so mai
rinunciare”.
Non è male questo racconto. In fondo
mi aspettavo parole piene di pena e di resoconti edificanti di preti e suore
alle prese con ’ste piccole disgraziate. Invece, con stupore quest’uomo mi dice
cose vecchie con parole coraggiose, vive perlomeno, nel ricordo che non cede
alla nostalgia cieca e sorda, che spesso i vecchi tirano fuori per sfidare i
giovani “ che so’ proprio cambiati oggi”, alla prima occasione. No, questo
cuoco al servizio anni e anni presso quell’istituto triste, non ha perso
l’occasione di fare i conti con un posto, appunto, triste per le storie degli
ospiti e bello per quello che faceva lui per loro. Partendo dalla pasta al
forno squisita, a detta di zia Luigina, fino a quel modo di guardarle carico di
umanità: molto rara in un’epoca dove era soprattutto la retorica a dire la sua,
quindi il non vero, quindi, e ora possiamo dirlo, che c’era un tale disprezzo verso
queste sfigate piccole piccole, nere nere, che lui tentava di proteggere
riempiendole di sguardi e piatti buonissimi. Altro non sapeva fare, all’epoca
quello poteva fare. Almeno l’ha fatto.
Ora però devo scavare di più; al
santuario ci sono solo pubblicazioni di beati e opere missionarie nel mondo. A
dire il vero c’era anche un libro-documento, che però arrivava fino al
trentotto. E poi? Era così triste da non testimoniarlo il periodo successivo? Saltano
le pubblicazioni esposte da questo libro di foto, direttamente all’inaugurazione
della nuova chiesa negli anni ottanta, con tanto di sindaco e vescovo in prima
fila. Ci ho provato a chiedere qualche informazione: risposte mosce come le
loro facce da suore mancate. Sì, perché di suore vere, ne ho viste poche in
giro là. E già, di ‘sti tempi gli aspiranti religiosi se li vanno a capare in
India e mica sempre ci pigliano. Una volta un prete indiano si è ubriacato e si
è messo a molestare le infermiere nella comunità dove lavorava un mio amico;
uno scandalo ben gestito nei giorni successivi. Non c’è che dire, questi quando
vogliono sanno insabbiare pure la sabbia. Comunque a ‘sti pretini o suorine a
volte scatta come una scintilla e tutto lo strato mieloso d’infantile cattolicesimo
esplode in mostruose particelle vitali: si aggrappano a tutto ciò che esprime
vita nei paraggi, altro che meditazione. Altroché.
Tonino si è fissato che dobbiamo andare
a trovare Antonietta, che nel frattempo ha più di settantaseianni e viene badata da una signora russa o della
Lituania, dice che non l’ha ancora capito bene. Dice, e questo fuori dalla
registrazione, che una volta uscita dall’istituto, nel ’51, è tornata a vivere
al paese presso una zia. Antonietta non si è mai sposata, e questo me l’ha
raccontato zia Luigina, e che ha preferito rimanere nella casa paterna, dove tuttora
vive, anche se assistita per i suoi tanti acciacchi. A dire il vero, e questo Tonino
me l’ha detto, che dalla storia dei tozzi di pane in poi si era capito che gli
era affezionato, quindi questo cuoco l’ha sempre saputo che la ragazzina era
troppo triste per mettersi in carreggiata, sposarsi e far dei figli,
invecchiare e crepare più tardi possibile. No, questa ragazza aveva sulla
faccia tutti i silenzi glaciali mai digeriti fino in fondo. Qualche volta ha
sofferto per lunghi periodi e i nipoti sono stati costretti a ricoverarla,
anche se per brevi periodi, presso una clinica psichiatrica.
Questo si è fissato, e vuole andarla
a trovare al paese. Non gli ho detto di no, e forse infatti non ci andrò, ma
lui, anche se non me lo dice, vuole in cambio della registrazione una gita da
Antonietta; ha quasi novant’anni, e si sta attaccando alla sua memoria per non
cedere al mostro nero che lo guarda tutte le mattine dalla finestra di fronte.
Così mi dice, quando vuole sdrammatizzare la paura di morire. Alla fine, così
dice lui, dovremmo restare una notte in albergo in cima al paese, perché lui non
si accontenta di restarci solo una giornata, no, deve passarci tutto il fine
settimana. Ci devo pensare e intanto mi metto a trascrivere tutta la
registrazione, e poi vedremo chi la spunta. Già il ricordo della faccia
corrucciata di zia Luigina mentre mi parla di quel periodo di fame e freddo mi
ha sconvolto, ora, e anche per due giorni interi, mi tocca subire tutto il
silenzio di Antonietta. Ci penserò stanotte, magari dopo le cose d’amore e dopo
aver letto qualche pagina del libro.
In realtà a me ‘sta storia non
interessava poi tanto, ma Zia Luigina, attraverso Lorenzo, mio cugino, visto
poco negli ultimi anni ma compagno di banda durante l’infanzia, mi ha
confessato che la madre aveva bisogno di parlare di quel periodo a tutti i
costi. Mi pareva strano che zia Luigina avesse detto a tutti i costi, ma quando poi mi sono presentato con il
registratore e una bottiglia di chinotto, ho capito, dalla sua faccia
soprattutto, che ‘sta vecchietta simpatica e un po’ toccata, stava per eruttare
parole lavate, nel senso di ripulite da tutte le fantasie che negli anni le ha
permesso di sopportarle meglio. Nel loro carico di sofferenza, e nella loro
assurdità, in quegli anni di neo-realismo e pre-boom, che queste vite di
bambine venivano tenute in sospeso a bagnomaria, qui inteso in senso letterale,
solo per pigrizia istituzionale. Caspita, c’era da riaccompagnarle subito,
appena finita la guerra, presso i parenti rimasti, o comunque dentro qualche
famiglia. Invece se le tenevano a sentir messe e a fare lavori massacranti in
cima alla collina, e intorno solo malaria e solitudine. E no, zia Luigina aveva
ragione a parlare. Anche se mi sono subito appassionato a questa storia,
osservando tutti i detriti che erano arrivati negli anni della mia giovinezza alle
rive della storia della mia famiglia, oltre che per i buchi neri di zia, che
poi diventavano veri e propri periodi di depressioni; la comparsa di Tonino,
che zia chiamava affettuosamente il cuoco,
mi aveva spinto a capire meglio di cosa erano fatti ‘sti detriti e buchi neri,
anche se il tutto mi pareva più lava incombente. Insomma, intanto volevo starne
alla larga, e preferivo godermi mia moglie nel primo anno di convivenza, magari
poi un giorno mi ci sarei dedicato. Mia
moglie mi reclamava spesso, e non sapevo più che scuse dirle pur di andare
appresso ai racconti di zia Luigina e del suo cuoco. Passavo dal mio lettone
ortopedico e godereccio a quello di lana e gonfio di guai di zia. Ma non
comandavo io, erano le loro facce a indicarmi le cose da fare.
3.
Ecco Antonietta dopo la lunga
chiacchierata col cuoco: si appoggia alle sedie mentre raggiunge la sua
poltrona verde all’angolo del salone, accanto al caminetto. Un fiume di parole,
anche se poi quel fiume appariva inquinato da fatti inenarrabili in altre
epoche: ora mi sa che siamo tutti pronti, chi ad ascoltare e chi a raccontare.
Antonietta ha raccontato che il
lattaio è stato ferito nell’agguato per vendetta di un nazista. Lo stesso che
il giorno prima aveva tentato di violentare una bambina dell’istituto, davanti
al corpo paralizzato di Antonietta. Il lattaio sentendo le urla è corso per
aiutare; il tedesco fiutando il pericolo si è dato a gambe. Alfredo l’ha
acchiappato in fondo alla vallata e sbattendolo a terra l’ha riempito di
cazzotti, fino a farlo svenire. L’indomani un commando di compagni del
violentatore ha aspettato il lattaio lungo l’Ardeatina; qui Antonietta si ferma
nel racconto e dice: ma chi gliel’ha detto che passava a quell’ora il lattaio?
poi continua a parlare del fattaccio e sul sangue che ha versato il povero Alfredo,
il quale vedeva tutto il suo latte sgorgare dalle taniche bucate dai compagnoni
tedeschi. Secondo me Alfredo era più incazzato che quel giorno, e per la prima
volta dopo dieci anni, non potesse portare il latte all’istituto, che alla
vista della sua coscia insanguinata ad opera di quei delinquenti nazisti. Antonietta
dice che aveva visto il giorno prima queste manone
tedesche che si accanivano su quella bambina e non sapeva cosa fare. Dice che pensava solo
che da lì a poco sarebbe successo anche a lei, visto che quello che succedeva a
loro dell’istituto era sempre un po’ a effetto domino. Ognuna somigliava giorno
dopo giorno alle altre, nelle fisionomie come nei desideri, ma tutto dentro la
grande disgrazia che le faceva sentire intime e indissolubili una dall’altra.
Erano un enorme corpo di bambola martoriato da quegli anni, sciagurati per le loro
storie. Be’, ascoltare questi fattacci mi
ha piegato le gambe e mi sono sentito di colpo più vecchio anche di Antonietta,
e morto più di zia Luigina.
Sapevo che quei nove mesi di
occupazione nazista furono pieni di soprusi e violenze di ogni tipo, ma che
dovesse capitare proprio a queste bambine già vittime di storie sfortunate, mi
sembrava troppo da sopportare in quella casa densa di odori e ricordi lucidi di
Antonietta.
Pensavo queste cose mentre lungo il
corso di questo paesetto arroccato mi fumavo l’ennesima sigaretta. Stasera esco
con la nipote di Antonietta, le ho detto che volevo chiederle tante altre cose
che proprio non riuscivo a chiedere durante la solenne intervista che il cuoco
ha fatto a sua zia. Ho visto la faccia del cuoco tesa e lì lì per esplodere in
un pianto; che non c’è stato, e forse, non ci sarà mai almeno davanti ai miei occhi.
Dopo questa notizia di violenza ognuno di noi se n’è andato via dalla scena. Luisa,
la nipote di Antonietta, ha più o meno la mia età e fa la sarta. Tra l’altro è
molto bella, e so anch’io che la bellezza paralizza, quindi, devo bermi qualche
birra prima d’incontrarla. Ora sono qui, in questo bar stretto e lungo, con un
barista impiccione di fronte che mi ha già fatto mille domande. Ciccione di un
barista pensa ai fatti tuoi e ai tuoi caffè bruciati, che non sai fare per
niente. Esco da questa trappola di bar e mi avvio verso la sartoria di Luisa.
Voglio vederla prima di stasera. Entro, e mentre lo faccio, sbatto contro il
banco pieno di scampoli colorati. Abbraccio forte Luisa, e lei già piange sul
mio maglione nero. Non so cosa fare, allora penso a quei film lenti, a quei
piano-sequenza infiniti dove si sente pure il rumore delle lacrime che cadono a
terra, così bacio Luisa. Un bacio che scioglie qualcosa. Ci sediamo sul
divanetto della sartoria, che solitamente accoglie clienti che hanno tempo da
perdere, e ci guardiamo a lungo negli occhi. La faccia di Zia Luigina si mette
in mezzo, e allora freno di colpo tutti i baci in arrivo.
“Ma tu lo sapevi?”
“No”
“Chissà quante cose non sappiamo
ancora”
“Io ne so anche un’altra, infatti”
“Cosa?”
“ Zia Antonietta ha dovuto abortire a
quindici anni”.
“Cazzo, e no! Pure questa ora…”
Il resto non ve lo dico, né di Luisa
e me e né del racconto della violenza all’istituto. Me lo tengo per me, ché non
mi va di raccontare tutti i fatti che neppure il ventre della guerra è riuscito
a inghiottire.
Il giorno dopo avevo la febbre. Mia
moglie mi ha accudito con cura e molta tenerezza. Mi sa che abbiamo fatto pure
l’amore, solo che avevo trentanove di febbre e quindi confondevo la sua pelle
con la mia, e non sentivo nulla che non fosse pesante e leggero allo stesso
tempo, come i miei pensieri affaticati di allucinazioni.
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